Delle moto che ho avuto (neanche tante a ben guardare) ce n’è una che ricordo sempre con molto amore. Si tratta di una Morini 3/12 Sport, forse la prima vera efficiente moto che ho avuto e provato.
Certo, dopo una DKW RT 250 2 tempi, che andava praticamente a olio, bellissima quanto inaffidabile, e un Guzzi Airone 250 , anch’esso bellissimo, ma lento e obsoleto, il bicilindrico bolognese fu un vero e proprio salto di qualità. Eppure, a distanza di tanti anni e di decine e decine di moto provate, per diletto e per lavoro, quella moto spartana, ma efficiente, su cui era stato montato un doppio disco anteriore, risulta ancora oggi un ricordo caro e motociclisticamente perfetto.
Sicuramente se dovessi usare oggi come la usavo allora una piccola moto come quella, morirei in una settimana. Ma allora, con i miei vent’anni, tanta salute, schiena integra e tanta voglia di andare in moto, mi risultava una bazzecola. Ricordo che la tenevo sempre a non meno di 8000 giri ovunque fossi: in città, sulle statali o in autostrada. Non tolleravo nessuno davanti e la Morini, nonostante i 160Km/h di velocità massima mi assecondava. La cosa bella è che potevo tenere quell’andatura per ore, senza che la mia bella ne risentisse. Nei tre anni di mio possesso mai un trafilaggio d’olio, mai un cedimento, ma solo le normali usure di candele, pastiglie, corona e pignone.
Erano altri tempi e di autovelox neanche l’ombra. Avendo una pausa da lavoro di un’ora e mezza, ricordo che uscivo dalla Motta Editore, in via General Govone a Milano ed ero a tavola nella casa di Quarto Oggiaro esattamente 7 minuti dopo. Percorrevo la via Castellammare, con il suo ciottolato di epoca romana (la strada più antica di Milano), a 120Km/h, tranquillamente grazie a delle sospensioni, si rigide, ma anche affidabili.
Ci giravo estate e inverno, con la pioggia e con il sole. Ci feci le ferie, ci portai le fidanzate, la usai per diletto e per lavoro, ma lei non mi lasciò mai – e dico mai – a piedi. Solo qualche volta era recalcitrante all’accensione, ma questo quasi sempre per mia disattenzione. Una purosangue non si può montare con approssimazione, ci vuole dedizione e un preciso rituale, come mettere i finimenti a un campione di razza. Si doveva portare il motore in compressione senza calcetti isterici, sentire il punto morto inferiore di un cilindro, in perfetta simbiosi con il punto morto superiore dell’altro. Si doveva appena far carezzare la ghigliottina del carburatore da un impercettibile pressione sul filo del gas, ma senza aprirla. Poi si doveva proiettare il proprio corpo verso l’alto, per scaricare tutto il peso sulla pedivella di accensione. Se sbagliavi, la Morini, risentita di ciò, ti snobbava offesa per almeno 15 minuti, come una donna che hai fatto aspettare a un appuntamento.
Successivamente diverse moto sportive presero il posto della mia vecchia Morini, prima di passare alle turistiche.
Ma ancora oggi, nei miei ricordi e nel cuore c’è ancora lei.