In principio era il Cromwell

Chi qualche tempo fa ha seguito i test della MotoGP a Sepang avrà notato che come a ogni inizio stagione bisogna riabituarsi a riconoscere a colpo d’occhio i piloti nelle loro nuove squadre e coi loro nuovi look, Lorenzo in rosso, Iannone in blu, Rossi come di consueto ma col casco dedicato all’evento, in particolare la sua Tavullia imbiancata dalla neve.

Tra i tanti meriti acquisiti in oltre vent’anni di corse Valentino ha anche quello di aver lanciato la moda dei caschi celebrativi, dal cuore rosso allo squalo che insegue il pesciolino, dalla medaglia di legno alla sua faccia con gli occhi sgranati, spesso e volentieri ha accantonato il suo tema ricorrente del sole e la luna per sottolineare qualche momento particolare o mandare qualche messaggio più o meno esplicito.

Questa cosa mi ha fatto pensare a un aspetto forse insignificante ma che coinvolgendo il capo di abbigliamento tecnico più importante per ogni motociclista, il casco appunto, si riflette anche nella scelta di ognuno di noi una volta di fronte alle luccicanti vetrine dei negozi di accessori.

Ho una certa età ma non tale da aver vissuto l’epopea delle tute nere e dei caschi Cromwell, la prima gara che vidi fu quella che inaugurò l’Autodromo del Mugello, una prova di campionato italiano in cui Read Agostini e Bonera, arrivati nell’ordine, già vestivano tute e caschi variopinti (ok lo so che Bonera aveva un Nava completamente bianco, non fate i precisini). Ovviamente le tecniche di produzione e verniciatura delle calotte non erano quelle di adesso, ma nonostante la fantasia fosse giocoforza tenuta a freno, dalla metà degli anni 70 in poi non mancarono esempi di caschi che hanno fatto scuola, a cominciare dal classico semplice bellissimo tricolore del mitico Ago.

Se oggi chiediamo a un appassionato che abbia oltrepassato gli anta di che colore era (ed è ancora oggi) il casco di Phil Read risponderà sicuro: nero con tre bande verticali bianche e la bandierina inglese in fronte. Jarno Saarinen? Bianco con fascia rossa centrale. Teuvo Lansivuori? Uguale ma col blu al posto del bianco. Johnny Cecotto? Bianco con due bande rosse. Kenny Roberts? Giallo e nero con le aquile ai lati. Angel Nieto? Bianco con due baffi neri. Barry Sheene? Paperino! Non mancavano variazioni sul tema, tipo il verde psichedelico dello svizzero Bruno Kneubhuler o gli esperimenti naif di, guarda un po’ che combinazione, Graziano Rossi.

I caschi erano una firma, una specie di marchio di fabbrica, immutabili negli anni e riconoscibili tra mille ancora oggi. Provate a definire in due parole il casco di Marquez, o di Stoner, o di Pedrosa, o di un pilota contemporaneo qualsiasi: impresa difficilissima tanti sono i ghirigori variopinti e gli scarabocchi degli sponsor, si fa prima a descrivere un caleidoscopio. L’ultimo distinguibile al volo è stato quello del Sic. E’ vero che oggi il segno distintivo dei piloti è diventato il numero di gara, al punto che ormai quasi tutti rinunciano anche all’ambitissimo numero Uno, però insomma cari designers, ogni tanto nelle sigarette mettetecelo un po’ di tabacco!

Nella foto: il mio casco e quello di mia moglie :o)

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