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Le ombre del Marocco – Terza parte

Non si ferma il viaggio in Marocco di Marco e Paola, tra canyon e sabbie del deserto, su strade che hanno da offrire colori che sembrano dipinti dalla mano di un pittore.

Testo di Marco Ronzoni & Foto di Paola Bettineschi

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Marrakech – Ait Benhaddou

Prima di lasciare Marrakech giriamo in moto costeggiando in parte i diciannove chilometri delle possenti mura che circondano la Medina, alte fino a nove metri e spesse due. Ora in buona parte restaurate, hanno perso l’originale colore rosso per un più sobrio beige. La città per fortuna non si è ancora svegliata del tutto, così riusciamo a guidare in centro senza rischiare la morte ad ogni metro. Paola è un’ottima navigatrice. Fosse stato per me, sarei in giro ancora adesso.

Fuori dalla città percorriamo un primo tratto anonimo verso sudest che però dopo Taferlate inizia a movimentarsi. In pochissimi chilometri il panorama cambia radicalmente. Il piatto scorrere dell’asfalto si trasforma in ripide colline che da lì a poco diventano le vere e proprie montagne dell’Alto Atlante. La strada non può far altro che arrampicarsi su di esse offrendo un percorso stupendo tra vallate dai colori incantevoli. Il poco traffico aiuta a rendere ancora più bella la guida. Ci attendono i passi Tizi-n-Ait-Imguer (1470 mt) ed il celeberrimo Tizi-n-Tichka (2260 mt), il più alto del Marocco. Lungo la salita, semplicemente fantastica, troviamo alcuni posti di ristoro e decine di venditori di pietre cave con all’interno cristalli un po’ troppo colorati per essere veri. Ci prendiamo il tempo per qualche sosta panoramica ed un breve spuntino all’ombra di una piccola pineta apparsa dal nulla.

Circa cinque chilometri dopo aver valicato il Tichka, anziché proseguire sulla direttrice principale verso Ouarzazate, imbocchiamo un itinerario alternativo. Una ripida e stretta striscia di asfalto si infila in una gola. Ci attendono sessanta chilometri di una bellezza stupefacente. Il fondo è spesso interrotto da sterrati e buche ma si procede con tranquillità. Le montagne intorno a noi cambiano in continuazione forme e colori, al punto che dovremmo fermarci ogni cento metri per raccogliere nuove immagini.

Niente abitazioni né persone durante i venti chilometri fino a Telouet dove riforniamo i nostri Camel-Bak con acqua fresca. Nella piccola piazza centrale sono raccolti i soliti duemila negozietti. La gente ozia all’ombra degli alberi o dei porticati, almeno finché non arriva qualche raro turista al quale tentare di rifilare oggetti vari o percorsi guidati alla vicina Kasbah ormai in rovina. Si continua poi su una strada tra canyon, sempre più bella ma sempre più sconnessa. I colori tutt’intorno sono stupefacenti. Piccoli gruppi di case si nascondono alla vista, mimetizzate tra le sfumature della terra. Per un tratto costeggiamo il corso del fiume Asif-Ounila il cui letto semiasciutto è incredibilmente verdissimo.

Si avvicendano piccole e grandi Kasbah, disabitate, diroccate, ma anche vive, come testimoniano le bianche parabole televisive ed i panni stesi al sole. L’asfalto poi migliora sensibilmente e ci accompagna fino alle porte di Ait Benhaddou, il famoso “Ksar” teatro di set di grandi film, dove decidiamo di fermarci e cercare un alloggio. Abbiamo bisogno di riposo quindi accettiamo di sacrificare qualche ora pomeridiana di guida per ricaricare un po’ le energie in previsione della discesa verso il deserto di domani. Oggi la temperatura ci è stata amica per buona parte della strada ma ora sta tornando a livelli impegnativi. Qualche tuono lontano annuncia un temporale. La speranza che rinfrescherà è presto vana. I pochi goccioloni di pioggia ad altro non servono che a fissare a spot la polvere accumulatasi sulla moto…

Ait Benhaddou – Zagora – M’Hamid

Il riposo è stato un toccasana. Dopo una rapida occhiata ad Ait Benhaddou, già visitata in un altro viaggio, procediamo verso Ouarzazate. A circa sei chilometri dalla città, all’altezza degli “Atlas Film Studios” inconfondibili per le pacchiane statue egizie in stile hollywoodiano poste ai lati dell’ingresso, prendiamo una deviazione a destra per Agdz – Zagora.

Un primo tratto stretto e sconnesso che sfiora la Kasbah di Tiffoltoute si congiunge in breve alla statale N9, diventando scorrevolissimo e a quattro corsie. Il traffico locale affolla un po’ la strada che inizialmente percorre l’altopiano desertico del Jbel Tifernine per poi salire sui tornanti del passo Tiz-n-Tinififft a 1660 metri di altitudine e scendere infine ad Agdz. Da qui parte un itinerario che si snoda lungo la valle del fiume Draa, costeggiando spesso l’oasi verdissima che ne riempie le sponde. Peccato non avere abbastanza tempo per curiosare tra le numerose Kasbah ed i villaggi che scorrono durante il percorso come in una diaproiezione. Ed ecco le prime dune di sabbia, seminascoste tra le palme e le rocce. Facciamo ingresso trionfale a Zagora a mezzogiorno.

Città bella e moderna, curata ed accogliente, è un ottimo punto di partenza per inoltrarsi nel deserto che la divide dal confine algerino. Celebre meta del “turismo d’avventura”, è cosparsa di uffici che si spacciano per boutiques ed organizzano ogni genere di tour dai più soft ai più estremi, oltre ad officine meccaniche che si pavoneggiano con muri multicolori ricoperti dagli adesivi di tutte le organizzazioni di raid del pianeta. Pare che nei mesi di aprile/maggio Zagora sia affollata da centinaia di fuoristrada e da moto superaccessoriate, tutte pronte per la “Dakar” o per il “Rally dei Faraoni”. Oggi però siamo l’unica moto in giro, chissà perché… Agosto non è certo il periodo migliore per bazzicare da queste parti. La temperatura supera alla grande i 40° e di ombra nemmeno l’ombra… Trovata una buona camera in un albergo in posizione strategica e parcheggiata la nostra “GS” all’interno della hall facendo spostare tappeti e divanetti (!), ci accordiamo con uno dei tanti organizzatori di escursioni in 4×4. Scegliamo questa opzione perché se proseguissimo in moto ci perderemmo il bello della zona. Le piste da queste parti significano solo sabbia, e posso garantire che carichi come siamo e con le mie capacità di pilota, guidare sulla sabbia vorrebbe dire finire presto a ruote all’aria.

A bordo di una grossa Toyota ci avviamo così verso M’hamid El Ghizlane, ultimo avamposto di civiltà dove il lungo “cul-de-sac” asfaltato finisce col trasformarsi in un delirio di sabbia, vento e dune fino all’Algeria. In breve siamo a Tamegroute, luogo di sepoltura del santo Mohammed Bou Nasri, la cui tomba è meta di pellegrinaggio di invalidi e malati che confidano in una guarigione dalle proprie pene. La Medina è posta su quattro livelli a scalare. Percorrerne i mille microscopici ed oscuri vicoli dà la sensazione di essere all’interno di un gigantesco termitaio che protegge i suoi abitanti dal caldo torrido e dal vento, regalando loro un’inaspettata frescura.

Al suo esterno si trovano la “Biblioteca Coranica”, che contiene antichi ed inestimabili manoscritti di religione, matematica, astronomia e cultura, e splendidi laboratori che producono vasellame e ceramiche di un intenso verde scuro, tipiche della città, ancor oggi cotte per giorni con legna e segatura dentro fumosi forni artigianali. Procedendo poi verso sud, percorriamo un altopiano che distende lo sguardo in lontananza verso il confine tra Marocco ed Algeria, strettamente pattugliato da entrambi gli eserciti, prima di imboccare alcune piste che si inoltrano verso deserto. In alcuni tratti costeggiamo verdi palmeti suddivisi in piccoli lotti coltivati ad orti, evidente testimonianza della presenza di acqua nel sottosuolo estratta da rari pozzi per l’irrigazione o per le abitazioni.

Ci dicono che per noi non è bevibile, almeno finché il nostro organismo non si sia abituato creando gli anticorpi necessari. L’autoimmunità costa circa sette giorni di potente dissenteria, ma poi si potrebbe bere anche l’acqua delle pozzanghere. Ci crediamo sulla parola. Non abbiamo alcuna intenzione di provare se è vero. I locali chiamano questa fase “American Express”, dalla velocità con cui i turisti stranieri corrono in bagno…

Quando ormai intorno a noi ci sono solo dune, facciamo una breve sosta presso il “Bivouac Erg Laudi”, uno dei vari campi tendati che ospitano chi volesse passare la notte lontano dalla civiltà. Il vento, all’inizio solo fastidioso, è diventato una tempesta di sabbia che ci impedisce di camminare sulle dune o solo rimanere ad ammirarne le forme. La sabbia sferza noi, le tende ed un dromedario che ha cercato riparo dietro una di esse. I gestori del campo ci mostrano un insolito modo di asciugare i panni appena lavati: basta stenderli sulla sabbia e lasciare che il vento li ricopra… Ripresa la 4×4 ci dirigiamo tra le creste sabbiose verso M’Hamid. La poca visibilità prodotta dalla tempesta crea qualche problema di orientamento al nostro driver.

Per qualche minuto sembra quasi essersi perso, ma continua a sorridere. Solo sabbia, dune, vento. Diverse volte inverte la marcia o si ferma e scende ad osservare l’orizzonte come Lawrence d’Arabia. Affronta dune che supera con slancio facendoci ammaccare la capote della Toyota con la testa, oltre le quali tutto è uguale a quello che le precedeva. Ma poi lentamente ecco davanti a noi le forme seminascoste di alcune abitazioni. Siamo a M’Hamid, quattro case sperdute nel nulla che sembrano fantasmi arrivati dal deserto.

Zagora

Sono le cinque del mattino. Spalanco gli occhi, svegliato dai rumori emessi dalla mia pancia e dal dromedario che si è seduto sul mio stomaco. La “Maledizione di Zagora” mi colpisce come le orche quando attaccano le foche. Cioè senza preavviso e dal basso verso l’alto. Dapprima trasforma il mio intestino in “qualcosa che voi umani nemmeno potete immaginare”, poi sale allo stomaco e lo strizza come un Calippo per poi fiaccare tutto il resto con una bella febbrona. Molto bene… E adesso? Sto così male che non riuscirei neppure a togliere la moto dal cavalletto. Siamo costretti a prolungare il soggiorno a Zagora. Passo l’intera giornata in un pietoso pellegrinaggio tra letto e bagno, facendo parecchia fatica ad alzarmi da uno per raggiungere l’altro, intervallato da una sonnolenza tale da farmi dubitare di essere stato punto da una mosca tzé-tzé. Non riesco nemmeno a spremere un limone in un bicchiere d’acqua. Paola riesce teneramente a recuperare qualche farmaco in una piccola farmacia in città, ad integrazione di quelli che ci siamo portati da casa. Ingurgito a raffica Tachipirina, Dissenten, Supradyne, un misterioso antivomito locale ed un altrettanto sconosciuto regolatore intestinale, attendendo con ansia di riprendermi un po’. A sera però i benefici non si sono ancora fatti vivi. Spero solo domattina di essere almeno sufficientemente in forze per poter guidare. Buonanotte.

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