Viaggio in Pakistan – Seconda parte

In sella alla moto, alla scoperta del Pakistan, tra culture lontane, off tosti, deserti, e tanta burocrazia per passare da un confine all’altro.

Testo e foto di Giampiero Pagliochini

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Il Tagikistan, dal mio punto di vista è uno stato dimenticato, cuscinetto tra l’Afghnistan e il resto dei paesi dell’ex URSS, è stato usato come deterrente durante l’invasione sovietica nel paese asiatico. Tutto il confine è minato, lugubri cartelli monitori avvisano della presenze di mine, dall’altra parte del fiume si scorgono villaggi afghani, qualcuno ci saluta.

La città di Korogh è un crocevia, dove la strada si sdoppia, una seguendo il confine afghano l’altra risalendo verso nord per Dushanbè, la capitale. Dormo in un resort dell’associazione dell’Agha Kan che cura gli interessi della popolazioni ismailita.

Dushanbè non può che essere la monotona città stile sovietico, lunghi viali e statue dalle forme bizzarre che hanno sostituito quelle dell’era russa. Pernotto all’hotel Tajikistan in perfetto stile soviet, la posizione è strategica, banche e fast food nelle vicinanze, e la strada per proseguire verso l’Uzbekistan, ma prima faccio un cambio d’olio alla moto, privandomi di qualche chilo visto che mi sono portato il prodotto specifico dall’Italia, dal momento che qui non si trova con questi requisiti.

È una domenica mattina quando mi lascio alle spalle la capitale, pochi chilometri e di nuovo strada bianca. Poi entro in un tunnel di cui non si vede la fine, sento umido alle gambe, guardo la vecchia UAZ che mi precede e solo allora mi rendo conto che ho l’acqua fino ai ginocchi. Per fortuna non soffro di claustrofobia, altrimenti sarebbe da strapparsi i capelli: 8 lunghi km in un fiume d’acqua. Quando rivedo la luce è come una liberazione, sono incuriosito, parcheggio e domando, hanno costruito un tunnel e non si sono accorti che c’era un fiume? Sembra una barzelletta ma è così.

Fa caldo; le montagne sono un ricordo, intorno campi coltivati a frumento, mezzi primordiali dove gli asini sono ancora il locomotore di carretti rudimentali. Alla frontiera con l’Uzbekistan ho la fortuna di incontrare un ragazzo che parla inglese, e mi aiuta a compilare i moduli scritti in cirillico. Saluto i cordiali poliziotti Uzbeki, e prendo verso Samarcanda. Il sole è ancora alto, entro in città; mi è facile puntare verso il Registan, l’imponente costruzione voluta da Tamerlano. Entro sulla piazza antistante, attendo il tramonto, quando la luce fioca del sole rende rossastro l’edificio, poi torno alla moto e due ragazzi, freschi sposi, mi chiedono di scattare qualche foto con la moto.

Mi concedo un giorno di riposo. Pernotto al Jahongir bed and breakfast; è un istituzione, spartano ma familiare, tutti i turisti fai da te si fermano qua. Oltre a me c’è un coppia di olandesi in bici, e due ragazze tedesche dirette a Pechino. Il proprietario è un bonaccione, veramente un luogo che consiglio agli avventurieri.

Infilo il casco e saluto, mi lascio il Registan alla destra, so che un giorno ripasserò da qua.

Giungo a Bukara. Quando parcheggio di fronte all’ingresso del Komil Boutique Hotel mi viene incontro il ragazzo della reception, tolgo il casco, mi guarda e sentenzia: “Sei passato di qua anni fa, qui hai fatto manutenzione alla moto”. Incredibile, ma credo proprio che più che il sottoscritto, sia la moto a stuzzicare la mente.

Bukara a mio avviso è la meta, oltre a Kiva, che ti fa respirare un tempo andato, dove carovaniere e popoli s’incontravano per affari. La Torre Kalan, un tempo l’edificio più alto dell’Asia centrale, offre un panorama inequivocabile. Tutt’intorno è un susseguirsi di edifici che evocano tradizioni, una vita scandita dai ritmi pacati, con moschee e sinagoghe. Un tempo i popoli non si curavano degli aspetti extra terreni, si conviveva in parsimonia, ognuno rispettando l’altro, è difficile capire il degrado che ha portato a conflitti religiosi, ma questi luoghi sembrano essere lontati da tutto ciò.

È ora di andare, so che sarà una giornata tosta, una burocrazia da aggirare, quella della frontiera turkmena.

Igor mi attende con l’autista prima delle costruzione sgangherate che fanno da cornice alla dogana, fuori tanta gente che attende il loro turno. Senza di lui non si poteva entrare in Turkmenistan, ci vuole una guida, nel 2000 non era obbligatoria, l’assurdo in questi paesi post-sovietici è che chi ha il potere lo gestisce a propria immagine. Ricordo cartelli ovunque dell’allora presidente Niazov, il quale dopo un infarto aveva proibito di fumare nei locali pubblici; in molti raccontavano del divieto di importare mercedes di 6000 cc, era esclusivamente un sua priorità, ma la cosa a cui la mia mente va immediatamente è lo slogan secondo cui in pochi anni questo paese sarebbe stato il Kuwait del centro Asia; certo le risorse non mancano, ma un conto è averle l’altro gestirle.

La sera dormo a Türkmenabat, anche i nomi delle città hanno subito un trasformazione, tutto ha radici in qualcosa che ricorda la Turchia, in effetti la maggior parte della popolazione è di questa origine, per cui i nazionalismi assumono contorni scontati.

In un passaggio precedente ho parlato di follia umana, è quello a cui vado incontro all’indomani visitando l’antica Merv, non lontano da Mary città moderna dove passerò la notte. Merv nell’antichità è stata un luogo di culture, gli storici gli attribuisco origini Indu. Conquistata più volte dai vari condottieri di turno, fu da sempre un nodo importante sulla Via della Seta, poi un rifiuto seguito alla morte di emissari di Tului, uno dei figli di Genghis Khan, portò questi a vendicarsi. Vennero trucidate più di un milione di persone, risparmiando solo gli artigiani. Da lì Merv cadde nel dimenticatoio, lasciando alla storia pochi ruderi sparsi su un area vastissima che grazie alla moto possono essere visitati.

 

Fa caldo, siamo ai margini del deserto del Karakun, tra i luoghi più caldi al mondo. A Serhas saluto Igor, faccio dogana, prima la turkmena poi quella iraniana. Ora la strada scorre veloce, la rete viaria iraniana è ottima e il paese, al di là delle tante news che ne parlano come di un pericolo internazionale, mostra il meglio di se stesso, lo è l’ospitalità di questo popolo che senza nessun fine invita costantemente a casa.

Mashhad è una metropoli, sono transitato anni prima ma ora mi rendo conto dell’enorme sviluppo che ha avuto. Bellissimi viali e alberghi accoglienti. I tappeti di Mashhad sono famosi per la loro morbidezza, ma è il turismo una delle fonti principali dell’economia. Il mausoleo dedicato all’ottavo Imana Alì al Ridà è meta di milioni di fedeli; l’Iran è a maggioranza sciita, quando il resto del mondo mussulmano ha nei sunniti i fedeli più numerosi.

Consiglio di sostare all’Alqadir Hotel, a due passi dal santuario ed immerso nella parte commerciale della città, dove vi renderete conto della divisione che c’è tra uomini e donne nell’occupare i posti, cosa che si evidenzia sugli autobus, dove ognuno è relegato nel proprio scomparto.

Più di 800 km mi separano da Terhan, la strada permette in un solo giorno di percorrere il tragitto, ora è a quattro corsie, ben fornita sia di alberghi che stazione di rifornimento. Per esperienza posso dire che l’unica sosta può essere quella di Shaoroud; un consiglio: arrivare nella capitale prima che tramonti il sole, cosa che vi permetterà di evitare il traffico. La città conta circa 14 milioni di abitanti ma durante il giorno si parla di un flusso che porta la cifra a 18, un caos che vi metterà alla prova.

Sosto al Parastro Hotel in via Jomhuri-ye Eslami, a due passi dall’ambasciata Russa, con tanto di parcheggio custodito a 100 m. Al mattino faccio un salto dai nostri connazionali, la nostra ambasciata si raggiunge a piedi, ho un’amicizia che lavora lì, fa piacere, anche perché è sempre un riferimento per qualsiasi evenienza. Un consiglio se non avete GPS: chiedete! Qualsiasi persona si farà in due per accompagnarvi! Io lo faccio la mattina seguente, uscendo dalla città. La destinazione è Tabriz, ma ho un promessa da rispettare; devo recarmi a Qazvin per un appuntamento a cui non posso dire di no. Un concessionario moto, Mr Nemati, conosciuto al salone della moto di Milano. Resto stupito per la qualità dei prodotti e le moto che vengono usate in circuito, una disciplina il cross che si sta affermando in Iran.

Supero Tabriz, ora la temperatura ha subito un cambiamento, si respira aria più fresca dell’altopiano del Kurdistan iraniano. A Maku, a 30 km dal confine, dormo nello stesso hotel per la quarta volta, il Maku Tourist Inn. Il proprietario si ricorda di me, all’indomani mi fa notare la registrazione di 3 anni prima, colazione abbondate, poi ultimi km in terra iraniana prima di giungere a Barzargan. Sia dalla parte iraniana che da quella turca tutto procede con estrema snellezza, negli anni tutto è migliorato. Un appunto, dalla parte iraniana c’è una banca dove è possibile riconvertire la moneta in dollari o Euro.

Quello che mi attende ora è un lungo trasferimento verso l’Italia. Prima Ankara, poi Istanbul dove mi riposo e faccio visita all’amico Ziki, proprietario di un negozio di pelli nel bazar della Moschea Blu. Vale solo ricordare per chi per la prima volta mette le ruote su questa land, la moschea di Santa Sofia e il Topkapi, e il Gran Bazar e, perché no, un attraversamento del ponte sul Bosforo, in un battito sarete in Asia.

Quando giungo ad Igoumenitza in Grecia mi concedo un giorno a Parga, cittadina che dista 50 km, souvlaky e mussaka e un po’ di mare, saluto gli amici di Antoussa, e con il sole che scompare all’orizzonte mi imbarco per l’Italia lasciando dietro di me tanti chilometri e ricordi.

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