Il Marocco è un luogo di contrasti, che a volte rasentano i paradossi. Qui si passa dall’anonimato di un paesaggio piatto e noioso ad uno stupendo ed incantato, da città in cui circolano più Range Rover che a Milano a quelle in cui circolano solo carretti.
Testo di Marco Ronzoni
Foto di Paola Bettineschi
[wp_geo_map]Zagora – Agadir
La sveglia suona. Cerco di capire se sono ancora conciato come uno straccio o se il riposo e i farmaci mi abbiano rimesso in sesto. Sono ancora un po’ debole e l’intestino non la smette di gorgogliare ma di certo mi sento rinato rispetto a come stavo ieri. E allora cosa aspettiamo? Fatti i bagagli e portata fuori la moto dalla hall, prima di rimetterci in marcia ci lasciamo andare ad un autoscatto davanti al cartello “Toumbouctou 52 jours”, reminescenza del passato carovaniero della zona. Sarà anche un po’ falso, ma è troppo irresistibile! Risaliamo quindi verso nord con una piccola distrazione su una pista sterrata all’interno del grande palmeto del Draa, tra modeste abitazioni e ragazzi a dorso d’asino che non capiscono una parola di quello che chiediamo loro. Il dialetto varesotto non ci aiuta.
Ad Agdz prendiamo la direzione verso Taliouline. Per diversi chilometri riusciamo a viaggiare davvero spediti poi improvvisamente il fondo peggiora. Tra buche, terra e lavori di ampliamento della sede stradale, saliamo e scendiamo in continuazione valicando in successione tre passi: il Tiz-n-Hamd-el-Romane (1395 mt), il Tiz-n-Timlaine (1190 mt) ed il Tiz-n-Taguergoust (1640 mt). Le condizioni della strada migliorano quando raggiungiamo la statale che ci porta verso est. Si corre lungo un altopiano vastissimo, sempre in quota, dai colori semplicemente straordinari. Ancora passi, il Tiz-n-Ikhsane (1650 mt) ed il Tiz-n-Tarhatine (1889 mt). Si susseguono villaggi dove si tessono i famosi tappeti berberi e dove anche qui la gente, che non parla arabo, fatica a capire il francese ma è molto cordiale.
Prima di raggiungere Taliouine, posta al centro della maggior area mondiale di produzione dello zafferano, la strada migliora ancora e permette buone medie. Dopo circa venti chilometri lasciamo la comoda N10 imboccando una direttrice minore tra uliveti, orti ed aranceti che ci porta a Taroudannt. E’ una bella città che segue i canoni tradizionali, con mura possenti che abbracciano la città vecchia.
Ci inoltriamo tra le sue stradine alla ricerca di uno dei soliti localini luridi in cui ci piace tanto mangiare. In una piccola piazzetta ne individuiamo uno abbastanza sudicio. Lasciamo la moto proprio davanti ad un gruppo di ragazzi con facce tanto tipiche quanto serie ed entriamo. Chiedo al tipo del barbecue se è possibile mangiare ma lui finge di non comprendere che vorremmo assaggiare il suo attraente pollo giallo fosforescente. Al terzo tentativo di comunicare le nostre intenzioni, visto che la sua faccia resta impassibile e la mia inizia ad esprimere un “crescente disappunto sul suo atteggiamento indisponente”, abbandono ogni ridicolo tentativo di articolare frasi in francese inventato e passo ad un colorito italiano stretto. Per fortuna interviene un altro, probabilmente il capo, che scioglie l’atmosfera ed evita che ci prendiamo a cazzotti. Seduti al piccolo tavolino, con le mani e la bocca che stanno diventando gialle come il pollo, Paola ed io ci chiediamo il motivo di questa strana atmosfera, mista di indifferenza e poca disponibilità. Eppure noi siamo i soliti simpatici, sporchi e sudati motociclisti… Mistero. Mangiamo, paghiamo pochi dirham ed usciamo con l’ultimo epiteto italiano al cuoco, nascosto tra sorrisi di circostanza. Chissà cos’ha nascosto lui tra i suoi… Non resta poi che seguire il noioso piattone verso Agadir. E’ lì che ritroviamo traffico e semafori, ma anche l’insuperabile bellezza dell’Oceano Atlantico. I quasi cinquecento chilometri di oggi hanno fatto meglio delle medicine di ieri…
Agadir – Tafraoute – Tiznit – Agadir
Usciamo dal supercaos di Agadir diretti verso sud-est. La strada pianeggiante si fa più interessante solo dopo Biougra quando incomincia a salire. Come cambia tutto in pochi chilometri… Il Marocco è proprio un luogo di contrasti, che a volte rasentano i paradossi. Qui si passa in breve dall’anonimato di un paesaggio piatto e noioso ad uno stupendo ed incantato, così come si esce da città nelle quali circolano più Range Rover Sport che a Milano e pochi minuti dopo si sorpassano carretti trainati da magri cavalli e gente a dorso d’asino… Questo è davvero il fascino di un Paese che continua a chiamarti a sé anche se lo hai vissuto tante volte, il cui richiamo continua a rimanerti nella mente fino a doverlo assecondare e costringerti a ritornare. Ed ogni volta trovi qualcosa che non hai visto, che non hai ancora apprezzato e che ti spinge ad aspettare la prossima volta in cui respirerai ancora il suo odore e ti riempirai gli occhi del suo essere.
Siamo ora tra monti dai colori intensi su un percorso di centinaia di curve, certo un po’ stretto e spesso senza protezione, ma con buon asfalto. Il traffico è scarsissimo. Per un breve tratto si costeggia l’Oued Ait Baha che forma poco oltre un bel laghetto chiuso da una diga e non segnato sulle mappe. Uno stop per un check alla cartina ci procura un intermezzo del tutto insolito. In uno spiazzo sterrato poco lontano dalla strada, un gruppo di uomini richiama la nostra attenzione con ampi gesti. In un primo momento li scambiamo per saluti, ma poi capiamo che sono un invito a raggiungerli. La curiosità prevale. La scena, in un primo momento confusa dalla distanza, inizia a rivelarsi nei particolari mentre ci avviciniamo. Ma cosa stanno facendo? Alcuni di loro sono intenti a spaccare qualcosa sopra un ceppo, un altro sta lavorando di coltello sotto un albero su qualcosa di appeso la cui forma non ricorda assolutamente capretti o pecore che è abbastanza normale vedere macellati lungo le strade e cucinati sulla brace per i viaggiatori di passaggio.
La moto si appoggia al cavalletto, il motore si spegne e i nostri occhi ora vedono. La “cosa” appesa sotto l’albero sono testa e collo di un dromedario. È agganciato per la bocca ad un ramo e l’uomo li sta scuoiando esponendo lo strato di grasso bianco sotto il pelo nero. Lì vicino pozze di sangue, viscere e pelle dell’animale. Un contenitore di plastica ed un grosso pentolone sono già pieni della carne fatta a pezzi. Gli uomini sul ceppo stanno spaccando l’osso di una gamba con una grossa lama ed un seghetto mentre le altre tre sono ordinatamente allineate in attesa di essere scuoiate e ridimensionate. La scena è così intrigante da non essere assolutamente raccapricciante. Capiamo che è qualcosa che fa parte della vita di questa gente, pastori nomadi accampati a poca distanza con le proprie tende. Ci invitano ad unirci a loro. L’anziano del gruppo inizialmente è piuttosto serio e scostante ma si addolcisce subito dopo, grazie ai nostri saluti ossequiosi.
Gli altri sono uomini maturi dei quali non è facile stabilirne l’età. Uno di loro, quello più cordiale, indossa il tipico copricapo blu che gli fascia testa e viso lasciando liberi solo gli occhi. Ci spiega che questi sono i preparativi per il matrimonio che verrà celebrato nel pomeriggio nel loro accampamento, Ci offrono della carne cruda, che dobbiamo comprensibilmente rifiutare con educazione, così come l’invito a partecipare alla cerimonia nuziale. Non possiamo però sottrarci dal gustare insieme a tutti i presenti dei bocconcini infilzati su fili di ferro e cotti alla brace. La carne è gustosa, tenera e saporita. Sono le nostre prime “brochettes de chamon”. Non sappiamo se e quando mai ci ricapiterà di mangiarne delle altre. La genuinità di questi uomini e la cruda semplicità dei loro gesti saranno un altro forte richiamo a questa terra.
Stringiamo le loro mani insanguinate e riprendiamo la moto, continuando ad arrampicarci su salite tortuose che sfiorano villaggi, pascoli, vallate e strapiombi. La collezione dei passi si arricchisce ulteriormente con il Tizi-n-Tarakatine (1500 mt), subito prima di giungere a Tafraoute, dove ci concediamo una breve sosta con la scusa di dare un’occhiata al vicino “Chapeau de Napoleon”, una strana formazione rocciosa che dovrebbe ricordare il copricapo del famoso condottiero. Diciamo che non è poi così intuitivo perché te ne accorgi solo quando qualcuno ti dice che è proprio quello sotto il quale ti sei fermato a chiedere informazioni…
Le abitazioni sono intonacate di un intenso ocra rosaceo che richiama il colore che assume la roccia dei dintorni al tramonto. Le finestre incorniciate di bianco le danno ulteriore particolarità, così come il palmeto che la lambisce. Ma è ora di proseguire verso Tiznit. La strada fino a Ida Oussemlat continua ad essere tanto bella per gli scenari quanto buona come fondo, almeno finché non incontriamo i lavori di allargamento della sede stradale che la trasformano in un tragico sterrato fatto di buche, avvallamenti e ghiaia che rischia di farci cadere un paio di volte, nonostante si proceda cautamente.
Solo oltre il Col du Kerdous (1100 mt), che superiamo su stretti tornanti, finalmente la strada migliora, appiattendosi definitivamente fino a Tiznit raggiunta a metà pomeriggio e famosa per i suoi gioielli, pugnali e sciabole in argento intarsiato. Percorriamo in moto le viuzze della Medina alla ricerca della Grande Mosquee col suo minareto in fango pressato che ricorda quelli del Mali, con contorti pali di legno che fuoriescono parallelamente al suolo sui quattro lati. La visita è breve. Usciamo da Tiznit costeggiando parte dei cinque chilometri di bastioni che la cingono prima di imboccare la via verso nord. La grande direttrice che conduce nel profondo sud ai territori dell’ex Sahara Spagnolo, ora provincia interna del Regno del Marocco che si distende fino al confine con la Mauritania, è stata recentemente ampliata nel suo tratto fino ad Agadir ed ora scorre in buona parte su quattro corsie. Il centinaio di chilometri che ci separano vengono così coperti in breve. Superato il grande e trafficato centro turistico, proseguiamo ancora verso nord cercando alloggio fino quasi ad Amesnaz e trovando solo appartamenti privati o campeggi con bungalow costosissimi. Non ci resta che tornare ad Agadir e passare la serata passeggiando sul lungomare tra i turisti del Club Med…
Agadir – Safi
La costa settentrionale oltre Agadir ospita diversi centri, frequentati in particolare da surfisti. E’ una zona in grande sviluppo, così come testimoniato da un enorme complesso in costruzione a Tarhazoute. La strada ne segue fedelmente il disegno fino al faro di Cap Rhir, per poi inoltrarsi nell’entroterra salendo ed allontanandosi sempre più dall’Oceano, superando anche un tratto di montagna con tante curve e scenari che regalano il piacere della guida.
Incontriamo greggi di capre curiosamente arrampicate sugli alberi alla ricerca del cibo che a terra scarseggia. Sono piante di argan da cui si estrae il famoso olio che viene offerto lungo la strada da improvvisati venditori. Prima di arrivare ad Essaouira facciamo una sosta nel paesino di Tidzi, visitando una delle tante cooperative femminili in cui si produce quest’olio, vera ricchezza della zona. Le donne all’interno dei laboratori sono sedute in terra e spaccano ad uno ad uno i frutti simili a mandorle che liberano dal duro guscio colpendolo con una pietra con rapidi ed abili movimenti delle mani. Partendo da questa fase si passa attraverso la spremitura dei frutti ed il recupero dei gusci e si giunge alla produzione ed al confezionamento dell’olio le cui qualità sono apprezzate in cosmetica, in medicina ed in cucina.
L’antica Mogador è una cittadina bellissima con un’ampia spiaggia sabbiosa, un porto di mille barche blu con mura e bastioni (la Sqala du Port) ed una caratteristica Medina. E’ frequentata da sempre da artisti e scrittori per l’aria tranquilla e sognante che emana. Paola ed io ne siamo innamorati. Non potevamo saltarla, anche se era già stata nostra meta negli altri viaggi. La zona del porto è piena di pescatori che stanno preparando il pescato per essere distribuito tra i vari locali della città, circondati da migliaia di gabbiani urlanti che pasteggiano ed ingrassano con gli avanzi. E’ uno spettacolo non privo di forti sensazioni, che vanno dall’intenso odore degli scarti che imputridiscono al sole, alla tristezza della vista di decine di poveri squali privati delle pinne e caricati come sacchi sui camion.
L’ora di pranzo ci stimola a sederci in uno dei cento chioschi nei pressi del porto, dove istrionici “ristoratori” attirano i clienti offrendo loro pesce esposto sui banchi, così fresco da essere ancora vivo. Non si potrebbe mangiare pesce migliore, cotto come sempre alla brace e a prezzi contenuti. Un giro nella Medina non può mancare, rilassante, coreografico, interessante. Visitiamo un piccolo laboratorio dove abili ebanisti lavorano legni di vari colori e pregio, tra cui i “nodi della thuja” un’escrescenza ricca di venature che cresce su questi alberi. Con essi realizzano oggetti ed arredi mirabilmente intarsiati, dando libero sfogo alla propria inventiva e creatività. Passeggiamo poi lungo i bastioni, ricordando il glorioso passato della città. Da qui transitava tutto il prezioso commercio proveniente dall’Africa sub sahariana e diretto verso i mercati europei, tanto da farle meritare l’appellativo di “Porto di Timbouctou”.
Ma è già tempo di ripartire. Proseguiamo lungo la costa verso Safi. La strada si alterna tra tratti molto belli, che percorrono vialoni alberati, colline dorate e distese di pascoli, e tratti anonimi.
Pochi gli abitati attraversati. Eccoci a Safi, grande città portuale tra i maggiori centri per la lavorazione delle sardine e città più sporca di tutto il Marocco. Vanta un passato storico, tra sultani ed occupazioni portoghesi, ma è così trascurata che le sue bellezze scompaiono in una sporcizia che non lascerebbe indifferente nemmeno chi ha visto posti peggiori. Percorrerne il centro ci costringe a passare in una via nella quale si sviluppa un grosso mercato. Microscopici locali, botteghe, chioschi e bancarelle accolgono ogni tipo di merce, commestibile e non. Tutto è per terra, tutto viene gettato in terra. Nemmeno i tasselli delle nostre gomme impediscono alla moto di scivolare sull’asfalto reso viscido dalla spazzatura. Gli odori passano dall’olezzo di vegetali marci, all’aroma del pane appena cotto, al fetore del pesce in putrefazione, all’acre esalazione di stie piene di poveri polli vivi ancora per poco. Ogni cosa è esposta all’aria aperta, immersa in un disgusto totale, dove tra l’altro transitano macchine, furgoni, motocarri, motorini, carretti, pedoni e una BMW gialla. Presso il porto la città si sporge su vertiginose scogliere a picco sull’Oceano con abitazioni, bastioni ed antiche fortificazioni che sembrano usciti da un film di fantascienza su un’era post atomica. Parliamo con un uomo. Con aria estasiata ci recita le bellezze della sua città, chiedendosi come mai il turismo preferisca luoghi come Agadir, El Jadida o Essaouira quando qui c’è il vero Marocco. Non ce la sentiamo di iniziare un discorso che, tra le difficoltà della lingua, finirebbe comunque con l’offendere il suo campanilismo.
Safi – Rabat
Usciamo con sollievo da Safi lungo la Route Cotiere che porta verso nord. La scogliera ci accompagna fino a Beddouza da dove iniziano grandi distese di orti con produzione di verdure vendute per strada, in particolare piccole zucche rosse, cavoli e pomodori.
Oltrepassata El Oualidia il litorale assume una conformazione stranissima. Sembra che una gigantesca onda oceanica di decine di chilometri si sia pietrificata appena toccata la costa formando una lunga depressione parallela tra sé e la terraferma. L’ingegno umano ha trasformato questa depressione in ordinate coltivazioni almeno finché il mare, qualche chilometro dopo, se la riprende formando così una stretta baia. Per arrivare a El Jadida si deve attraversare un’enorme zona portuale con raffinerie ed impianti industriali a perdita d’occhio. Si entra poi in città, ordinata, pulita e molto viva.
El Jadida (la “città nuova”) è sorta sulle ceneri dell’antica Mazagan fondata nel XVI secolo dai portoghesi che la distrussero oltre due secoli dopo quando vennero scacciati dal sultano Sidi Mohammed. La città vecchia con i poderosi bastioni, o almeno ciò che ne è rimasto dopo la dipartita portoghese, è uno splendido angolo di storia affacciato sull’Oceano e sul nuovo insediamento urbano. Al suo interno merita una visita la “Citerne Portuguaise”, cavità sotterranea costruita nel 1514 dai dominatori europei per essere utilizzata come arsenale e divenuta successivamente cisterna per raccogliere ed immagazzinare acqua potabile a garanzia di una scorta idrica in caso di assedi.
Prima di lasciare la città diamo una rapida occhiata al faro, stranamente lontano dalla costa ed incastrato tra le case. Affacciate sulla spiaggia sono messe ad essiccare grandi distese di alghe marroni dall’intenso odore salmastro.
Non ci resta che l’autoroute per Rabat, via più breve e veloce per raggiungere la Capitale. Il caos che ci accoglie è indicibile. Non è per niente facile guidare ed orientarsi nel traffico, così come trovare un albergo. Finalmente, con un po’ di fortuna, ne troviamo uno in splendida posizione, proprio di fronte alla Porta Bab Chellah che accede alla Medina. Dalla finestra della camera assistiamo al tramonto sulla città vecchia.
E’ un richiamo irresistibile, reso ancora più suggestivo dal cantilenare del Muezzin che ricorda ai fedeli il momento della preghiera. Lungo le mura si sono radunati venditori improvvisati di generi vari, tra cui spiccano pochi carretti dove vengono cucinati i soliti cibi da strada tra i fumi ed i profumi delle braci. Ci inoltriamo nella Medina tra botteghe che stanno chiudendo e la gente che esce dalla moschea dopo aver assolto ai propri doveri religiosi. Passeggiare in questi luoghi di sera è semplicemente straordinario. Tutto è più contrastato, dai colori agli odori, tutto sembra più vero perché le ombre rivelano quello che la luce a volte nasconde. Sono momenti che vorresti non finissero mai. Nonostante non vi sia traccia di turisti, passiamo del tutto inosservati. Due pesche succose e un po’ d’uva sono i nostri unici acquisti. Peccato rientrare in camera. La città sta per addormentarsi. Una curiosa lunghissima fila di persone è in attesa del proprio turno per salire sui mille taxi Mercedes 240 del vicino “Parc du Triangle de Vue”. Tutti restano ordinatamente in coda come londinesi ma quando il taxi è a portata di mano si scatena l’assalto ai posti.
Rabat
Stavolta la giornata di stop è voluta e non forzata da guai fisici. La moto riposa nel parcheggio dell’albergo dove ieri l’abbiamo portata percorrendo un centinaio di metri contromano in una via affollata di taxi che si muovevano come formiche in un formicaio. A suon di “pardon” e “shokran” e con l’inaspettata comprensione dei tassisti ce l’abbiamo fatta. Oggi turismo puro, quindi tanti chilometri a piedi.
Rabat è forse la città più bella di tutto il Marocco perché racchiude in sé tutto quello che ci si aspetta. Vagando lungo il Wadi Bou Regreg, il fiume che la divide dalla vicina Salé, osserviamo le barche da pesca che scaricano il pescato sulla sponda dell’antica rivale. In breve siamo alla Bab Oudaia, la splendida porta costruita nel XII secolo come principale accesso all’omonima Kasbah i cui bastioni esterni dominano la scogliera sul fiume.
Nella vicina “Rue de Consuls”, che si inoltra nel quartiere commerciale della Medina, si trovano botteghe di artigiani e mercanti. Destinata anticamente ad ospitare le residenze dei consoli stranieri (da cui il nome) ha la particolarità di essere per diversi tratti coperta da strutture in ferro battuto o da teli variopinti che le donano preziosa ombra. Attraversiamo poi il ponte Moulay Hassan che porta a Salé. Fondata nell’XI secolo, crebbe in un tribolato contesto di pirateria e rivalità commerciale con Rabat che ne decretò il declino. In seguito si reinventò come importante centro artigianale ed ora vive a fianco della Capitale condividendone la bellezza. Lunghe mura poste a difesa dell’abitato, cimiteri semplici ed ordinati, una grande spiaggia, una moschea ed una Medina di straordinaria intensità e genuinità come forse in nessun altro luogo del Marocco. Ecco Salé. La gente della sponda nordorientale del Bou Regreg tiene alla propria identità e non perde occasione per precisare di non essere di Rabat, a testimonianza che forse la rivalità non si è mai spenta del tutto.
Per rientrare a Rabat cerchiamo un taxi. Scopriamo una curiosità: i “petit taxi” di Rabat sono blu e quelli di Salé sono beige. Ognuno non può uscire dai limiti della propria città. I milioni di Mercedes 240 bianchi invece vanno dappertutto ma sono in particolare dedicati a trasporti multipli, anche se nei momenti di calma si fanno andar bene anche due turisti. Di nuovo nella Capitale ci portiamo verso il Dar El Makhzen, il Palazzo Reale, gigantesco complesso totalmente circondato da mura che comprende oltre alla residenza del Re anche gli uffici governativi, una moschea, un ippodromo, una grande piazza in cui si svolgono le celebrazioni solenni ed edifici privati in cui vivono migliaia di persone. L’accesso per il pubblico avviene solo attraverso una piccola porta dove è d’obbligo lasciare i documenti ad un posto di guardia della Police. Ormai è sera. Non riusciamo a resistere alla tentazione di rituffarci tra i venditori di strada ed all’interno della Medina. Camminiamo tra i vicoli, senza badare all’orientamento, osservando e curiosando. Assaggiamo squisito succo di canna da zucchero preparato al momento spremendo le canne con l’aggiunta di qualche fetta di limone all’interno di uno strano macchinario. Poco oltre, teste di bue cotte fanno bella mostra di sé su un banchetto. A parte l’aspetto raccapricciante, l’odore è nauseante. Il cuoco scarnifica i crani con un coltellaccio estraendone tutto ciò che non è osseo e prepara gustosi panini. Anche a questo crediamo sulla parola…
Rabat – Asilah
E’ davvero un peccato lasciare Rabat. Dopo una breve sosta per rivedere il Mausoleo di Mohammed V e la Torre incompiuta di Hassan, uno dei simboli della città, imbocchiamo la N1 fino a Kenitra proseguendo poi in autostrada fino a Larache.
Presa l’uscita per Tetouan, seguiamo per una decina di chilometri una buona strada con l’intento di raggiungere la località di M’Soura, dove si trova un circolo di pietre preistorico risalente al periodo Neolitico, unico esempio del genere in tutto il Maghreb ed il Sahara.
Una deviazione a sinistra senza alcun cartello, che ci viene indicata in una stazione di servizio qualche chilometro dopo averla passata, si inoltra tra le colline e raggiunge il sito archeologico. Un vecchio custode, tanto disponibile quanto scazzato, si offre di aprire il cancello e lasciarci portare la moto all’interno. Colpisce subito la semplicità e la solitudine del luogo. Le 200 pietre, che vanno dai 50 cm ai 5 mt di altezza, sono disposte a cerchio con una circonferenza di oltre 50 mt. Chissà di chi sono opera, chissà quando e come sono state posizionate e chissà quale significato hanno. Il custode ci accompagna, provvedendo a fornire informazioni in un francese incomprensibile reso colorito da un’ampia gestualità. La mancia che gli diamo è pura simpatia. Ritornati sui nostri passi e ripresa la N1 arriviamo in breve ad Asilah, ultimo centro balneare prima di Tangeri, dove troviamo una camera. La storia di Asilah inizia dai Fenici arriva ai giorni nostri, passando dai Romani, dai Portoghesi, dai briganti marocchini e dagli Spagnoli. La città vecchia in stile andaluso è racchiusa da mura nelle quali si aprono due porte: la Bab El Bahr (porta del mare) verso la costa e la Bab Homar (porta di terra) che collega la città nuova. Un forte vento spazza la bella spiaggia, ma non ci impedisce di rilassarci per un’oretta al sole e di fare un tuffo nelle fresche acque dell’Oceano. Ci accorgiamo subito della differenza con il resto del Marocco. Qui bisogna pagare tutto, dal posto per la moto in strada, all’ingresso alla spiaggia libera, all’armadietto in cui riporre i vestiti, alla sedia trovata rovesciata e semicoperta dalla sabbia. Ci avvisano di stare molto attenti ai furti e di non abbandonare nulla. La stranezza di questo posto traspare dalla sua gente che ha un atteggiamento molto spavaldo, quasi arrogante. Fatichiamo a farci capire nonostante tentiamo di parlare loro in francese, spagnolo o inglese. La sera il centro si riempie di gente. Molti locali, ristoranti e strutture. Peccato che ci sia un’atmosfera da fulminati.
Asilah – Tangeri
L’epilogo del viaggio purtroppo è giunto. Lasciata Asilah, raggiungiamo Tangeri e da lì proseguiamo verso il porto di Tangeri Med sugli ultimi chilometri in Marocco. Le formalità di imbarco sul ferry della Grimaldi sono piuttosto rapide. Ora è solo attesa di salpare.
Tre giorni dopo scendiamo a Livorno.
Game over.