testo e foto Daniele Ciccone
[wp_geo_map]Credo fossero le undici di sera di un giorno imprecisato di fine giugno.
Era il 2006. Un cacciavite in mano, un mobile da montare. Una casa comprata con orgoglio e con i sacrifici. Poi un brivido e un’immagine: il deserto e la mia moto, ed io.
È un momento che ricordo ancora chiaramente. Forte come una scossa. Poggio il cacciavite, mi siedo per terra guardandomi intorno.
I muri sono ancora freschi di vernice, la voce rimbomba nella stanza ancora vuota. Una musica jazz suona dalle casse di una radio poggiata lì per terra e per caso. Allargo le braccia, non mi do pace. Cammino avanti e indietro contando ripetutamente i passi che mi separano da un muro con l’altro. Stavo per realizzare un progetto importante nella la vita di ogni persona: la prima casa. Eppure qualcosa andò storto, o comunque non funzionò!
Sentii il bisogno di uno spazio più grande; sentii la necessità di respirare.
Pregustavo il profumo del mare, e quella sensazione di libertà che si prova quando il vento ti accarezza la faccia. La moto, la strada, il mondo: equilibrio tra fermezza e follia. Credo sia una cosa che abbia a che fare con il proprio istinto. Una di quelle sensazioni che non si comandano, come quando t’innamori.
Non chiusi occhio quella notte. Un susseguirsi di allegorie, una dopo l’altra. L’immaginazione che risveglia lo spirito quando senti la voce del mistero che urla di lasciarsi andare. Questa è la magia dei sogni; e quel momento esatto fu l’embrione di questo viaggio. Un progetto che non ha una meta finale, una data, nemmeno un itinerario prefissato. Nacque così, dall’istinto; e finirà così, per passione.
La preparazione
Due anni di studio, di ricerche, di telefonate e di lavoro. Tutto in silenzio. Un investimento di energie pazzesco per uno che parte senza sapere cosa, come, quando. E neanche bene il perché.
Una passione pura e onesta fa crescere questo progetto passo dopo passo.
Una moto trovata per caso, e per fortuna. Poi la scelta di partire da un luogo in cui potessi comunicare bene con la realtà che mi circondava. Buenos Aires battezza la seconda fase di questo progetto…
In viaggio
Due mesi vissuti nella capitale Argentina tra il mito di Maradona, il Boca Junior, e la vita precaria di milioni di persone, di cui nessuno se ne frega. Poi la moto che arriva dentro ad una cassa e il primo problema a km 0.
Una manovra poco accorta, il muletto che sbatte proprio nel punto sbagliato finendo con lo sfondare la cassa e danneggiare una delle borse di alluminio. Mettersi a confronto con la burocrazia Argentina è come fare a cazzotti con Mike Tyson; lascia perdere. Pratiche assicurative, telefonate, e-mail. Un percorso senza fine, rimasto definitivamente inconcluso.
Poi mi stufo, pago i danni, ingrano la prima e parto per non so dove. Sono i primi chilometri che segnano quel momento particolare del viaggio e, per sempre, la mia storia. Alla partenza nessuno spettatore, nessuno ad applaudire. Soltanto la ricompensa più grande: la mia libertà.
Mi ritrovo presto nei deserti della Patagonia, sconquassato dal vento che ti entra fin dentro le ossa, che ti lascia quel sibilo dentro la testa per settimane.
Un vento che a volte non ti lascia nemmeno spazio per immaginare. Tenerlo a bada è una lotta fisica.
Giù fino alla “fin del mundo”, nella Terra del Fuoco. Poi di nuovo su a zig zag tra Cile e Argentina. Ho grandi emozioni da ricordare guardandomi indietro. La natura in quella parte del mondo ha fatto un capolavoro: le Ande. Una compagnia che mi terrà al fresco, se non al gelo, fin quasi al mar dei Caraibi. Giorni di memorabile avventura, e la leggendaria Panamericana lì sotto alle ruote. Il sogno non era più sogno, era realtà.
Una sberla in pieno sonno quando il caso mi sbatte la morte in faccia nella dinamica di un incidente stradale assurdo, di cui sono involontariamente unico spettatore. Due giovani vite strappate al loro destino e consegnate alla morte in modo brutale, proprio davanti ai miei occhi. Una cosa che mi provoca dei problemi ogni volta che ci penso. Una scena raccapricciante.
Poi Santiago del Cile e i ragazzi della “Mansion del Rock” che mi accolgono a braccia aperte e in casa loro a tempo indeterminato. Gente vera, senza troppe pretese. Pronta a dare tutto senza chiedere niente in cambio. Una lezione che stringo tra le mani e conservo nel tempo.
In Cile attraverso la zona più arida del pianeta: il deserto di Atacama. Una delle giornate più gloriose porta la firma del “Paso de Agua Negra” tra Argentina e Cile. Quattrocento chilometri che da metri 0 mi sparano in cielo a metri 5200, per poi tornare nuovamente a metri 0 sulla spiaggia di La Serena, Cile.
Una giornata che ha del divino, quasi poetica, fra i tornanti sassosi e un paesaggio lunare a stringermi in un silenzio che incute timore; le montagne. Un brivido!
Poi la Bolivia, il fango, l’avventura gelida di una notte trascorsa ad altissima quota dopo essermi perso nel punto più sbagliato in cui potessi farlo.
Il Salar de Uyuni, in Bolivia, mi evoca il concetto di mistero che ho sempre associato al mare. Un deserto di sale enorme, il più grande al mondo e a quota 3700 metri. Uno spazio che ad attraversarlo tutto ti senti arrivato in paradiso. Bianco, bianco, e ancora bianco; ovunque ti giri. Qui i riferimenti spariscono, tu sei piccolo, la tua moto è piccola.
La malasorte
Mi prende per il collo, in Perù. E arriva tutta in un colpo solo. Tre ragazzini mi assaltano con un coltello ai piedi del Machu Picchu per rubarmi due spicci. Poi una caduta danneggia la borsa laterale sinistra, che aggancerò al telaio tramite una corda fino a Bogotà, in Colombia.
Il terrore negli occhi scatenato da una droga gettata senza dignità, e a mia insaputa, nel bicchiere di un cocktail, a Cusco. Allucinazioni orribili accompagnano il mio dramma fino al letto di un ospedale. Il camice scialbo di un’infermiera premurosa al mio risveglio. E un lento ritorno alla realtà. Al primo giorno di viaggio, neanche ancora recuperato, esplode la gomma posteriore in mezzo al deserto a 4000 metri, con una temperatura di quattro gradi e il buio a farmi compagnia.
Poi diversi furti: il laptop, con tutta la mia storia dentro. Poi la scusa di una multa e la polizia che mi ripulisce per bene, lasciandomi nei dintorni di Barranca, in pieno deserto sabbioso, senza un centesimo e senza benzina.
La macchina fotografica distrutta e il disco esterno dove conservo le fotografie andato in malora.
Tutto in meno di dieci giorni. Le ho prese di brutto e vado ko.
Un amico
Ci metto quasi 5.000Km a rimettermi in piedi dal knockout. Giusto la strada che mi separa dalla sfortuna del Perù alla porta di casa di John, nel quartiere di La Salitre, a Bogotà, in Colombia. Un amico in comune con una persona purtroppo scomparsa, Fabio. Una decina di giorni in tutto, sufficienti a stringere un bel rapporto di amicizia, che cerco di conservare nel tempo e a distanza. Andiamo a correre, a cavallo, a ballare salsa, prepariamo cene a casa, andiamo al ristorante e in qualche discoteca. Mi presenta ai suoi amici. Lui è un ingegnere è lavora sulle piattaforme petrolifere in mezzo al mare. Una persona spessa, di cultura, attenta nelle osservazioni e nei ragionamenti. Un maratoneta che ha viaggiato il mondo. Mi spiega molto bene che cos’è la Colombia, i problemi con il narcotraffico, le Farc, la storia e i progressi fatti negli ultimi anni. Grazie a lui ho avuto la possibilità di sentirmi parte di quel luogo, e non solo di passaggio. Sono convinto ci sia una differenza sostanziale tra il passare da un luogo e l’entrarci. Il contatto umano mi aiuta a sentirmi dentro alle cose e ai luoghi; mi aiuta ad allontanare i preconcetti nei confronti di una cultura, invece che leggerne i contenuti da un finestrino o dalle pagine di un libro. Guardare negli occhi, parlare la stessa lingua, avvicinarsi ad una persona per conoscerne la storia. Questo fa la differenza.
Ripartenza
Un equilibrio ritrovato e un sorriso spensierato accompagnano la mia ripartenza. Un viaggio bellissimo fino in Venezuela e il ritorno in Colombia. La Panamericana si interrompe lì.
Tra Panama e la Colombia c’è il Darien Gap. E di strade, neanche a parlarne. Trovo un capitano, originario della California, che porta gente da una sponda all’altra con una barchetta a vela mezza scassata. Contrattiamo sui soldi, poi carico la moto a prua e via verso il mar dei caraibi fino a Puerto Lindo, Panama. Sette giorni di navigazione cullato dalle onde del mare. In mezzo le isole San Blas. Ecco il Centro America.
Un’altra storia
La decisione di viaggiare sulla stessa moto insieme a Francesca, la mia ragazza, dopo mesi di lontananza. Un riavvicinamento che coincide con la rottura di un ritmo che avevo costruito col tempo e l’inizio di un viaggio diverso; meno avventuroso, più maturo. La condivisione totale di un’esperienza del genere lega due anime, oltre che due corpi nell’atto dell’andare, seduti a stretto contatto sulla sella di una motocicletta per le strade del mondo. Ventiquattro ore, sette giorni la settimana. Abbiamo condiviso luoghi incredibili, incontri, cadute, un furto subito, pioggia, caldo, parole e gesti. E il concetto di libertà che si trasforma in condivisione. Un viaggio molto più difficile del precedente, perché mette a confronto due personalità diverse nelle stesse situazioni, costantemente.
Insieme abbiamo percorso quasi venti mila chilometri, da Città di Panama a Vancouver, Canada. In mezzo due continenti: il Centro e il Nord America. Due culture distanti tanto nei modi e nelle attitudini, quanto nelle economie e nella qualità di vita. Ma vicine per ciò che riguarda gli aspetti più umani, i sentimenti. Quelli non cambiano mai, da nord a sud, da est a ovest, nei cinque continenti.
A Panama mi prende una febbre improvvisa. E la paura di aver contratto la febbre suina, non mi fa dormire. Corro in ospedale in Costa Rica, a Puerto Viejo. Esami, contro esami. Poi non ne ho saputo più nulla. E ancora, infezioni intestinali in Guatemala per tutti e due. Di nuovo in ospedale a Puerto Vallarta, Messico. Poi a Los Angeles, in California.
Tutto regolare, tranne il conto. Duemila dollari per un semplice esame del sangue. Trattati come clandestini; benvenuti negli Stati Uniti. Ma per fortuna non è tutto uguale.
E proprio in California e nella West Coast abbiamo vissuto le più belle esperienze umane di questo tratto di strada insieme.
Portland, Oregon; Seattle, Washington. John e Daniel, due fratelli incontrati in Bolivia nel loro cammino verso sud e ritrovati lì, a distanza di un anno e 30 mila chilometri. Ecco spiegato il senso di solidarietà che accomuna le persone nel mondo attraverso le proprie passioni, i propri ideali. Una moto, un viaggio. Non importa dove vai, né da dove vieni. Troverai sempre qualcuno disposto a tenderti la mano e qualcun’altro pronto a colpirti. Devi solo stare attento a metterti dalla parte giusta, renderti disponibile e tollerante nei confronti delle diversità, che per forza esistono fra culture diverse.
Voglia di stabilità
L’arrivo a Vancouver non è dei migliori. Freddo, pioggia, nebbia. Quaranta mila chilometri macinati in quindici mesi di viaggio lasciano il segno. E la voglia di rimettersi in pari con il fisico e con il portafoglio diventa un’esigenza. E allora ci fermiamo per un po’. Cerchiamo una casa, un lavoro, soldi per continuare. Un compito difficile se considerato in appena sei mesi. Una nuova esperienza: stabilità nel movimento. E le difficoltà che derivano dal tentativo di integrarsi in una realtà diversa. Alla fine riusciamo solo in parte a raggiungere i nostri obbiettivi. Rimane comunque un’esperienza costruttiva, che è lì e non si cancella più.
Oggi, tornato a viaggiare solo, ritrovo il contatto con la strada in questo cammino verso il grande nord: l’Alaska. È una sensazione che mi mancava. Già, la strada. Una lingua di asfalto apparentemente innocua, semplice come una riga dritta. Un luogo misterioso e insospettabile in cui imparo la vita.
Chi volesse seguire le avventure di Daniele Ciccone può collegarsi al sito www.daninviaggio.it
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