L’obbiettivo di questo viaggio è stato quello di attraversare la più grande riserva naturale del pianeta: la Foresta Amazzonica. Grande quanto l’Europa Occidentale, questa rappresenta un terzo della superficie boschiva del globo terrestre e un quinto delle riserve di acqua dolce. La nostra mappa prevedeva la partenza dalla capitale Venezuelana Caracas per raggiungere La Paz in Bolivia. Un percorso impegnativo, ma non impossibile, con una grande incognita che mi toglie il sonno da mesi: la famosa BR 319, la strada costruita negli anni settanta per collegare Manaus a Porto Velho. Sarà aperta? Le informazioni prese segnalano che la strada è abbandonata da quasi vent’anni, impraticabile nella stagione delle piogge e molto malmessa nella stagione secca, anche se qualcuno ogni tanto riesce a passare. In alternativa, ci sono dei battelli che risalgono il Rio Madeira, ma non ci sono notizie certe neanche su questi. Il mistero si risolverà soltanto quando arriveremo laggiù. Avanti… oppure rinunciare al viaggio con la consapevolezza di essere i primi motociclisti ad intraprendere un viaggio nel cuore dell’Amazzonia.
Sbarchiamo all’aeroporto di Caracas in piena notte e pernottiamo a Macuto, una località a trenta chilometri dalla capitale venezuelana e in posizione strategica rispetto a La Guaira, dove ritireremo le moto. Entriamo in possesso dei nostri mezzi in un pomeriggio afoso. I primi chilometri sono “rinfrescati” da un violentissimo temporale.
Ci lasciamo presto alle spalle la caotica Caracas lungo l’autostrada trafficata, ma scorrevole. Dopo trecento chilometri la Suzuki 400 DR di Franco si ferma. Lo sfortunato motociclista si deve arrendere davanti al motore bloccato e completamente fuori uso. Carichiamo la moto su un camion di passaggio. Chiedo: “Quanto vuoi per trasportare la moto fino al confine brasiliano?” “Niente! Arrivati a destinazione mi farete un regalo”. Paese fantastico il Venezuela!
Il paesaggio cambia continuamente come del resto il tempo: mattinate assolate con bellissimi cieli azzurri si alternano a pomeriggi con nuvole cariche di pioggia e temporali. Pianure e dolci colline lasciano il posto all’altopiano della Gran Sabana con i suoi Tepuis dalla cima tronca e alle numerosissime cascate.
Dopo aver abbandonato la moto di Franco al confine tra il Venezuela e il Brasile contattiamo un gruppo di contrabbandieri di benzina per avere un mezzo di trasporto per i bagagli e le gomme di scorta dei motociclisti. La trattativa è lunga, ma alla fine ripartiamo accompagnati da due scassatissime station wagon cariche di tante speranze, per Manaus. I simpatici driver sfruttano la differenza abissale del prezzo del carburante per intraprendere una losca, ma redditizia, attività con queste auto vetuste trasformate in vere e proprie auto cisterne con serbatoi da 1500 litri. In Venezuela con un dollaro americano si acquistano 33 litri di ottima benzina, mentre in Brasile il prezzo al litro del carburante sfiora un euro.
La foresta si infittisce quasi soffocando le rare e piccole capanne. Boa Vista, una città molto tranquilla, viene raggiunta dopo duecentosessanta chilometri di strada asfaltata costellata di grosse buche profonde. Superata la città la foresta si dirada a favore dei pascoli delle numerose “fazende”. La causa primaria della deforestazione sono proprio i pascoli e la storia è sempre la stessa. Si tagliano gli alberi ricavando enormi profitti, ciò che rimane viene dato alle fiamme e sull’area vengono coltivate piante erbacee che impediscono la crescita di nuovi alberi. Ogni anno ventitremila chilometri quadrati di foresta amazzonica scompaiono per lasciare spazio agli animali ed alla soia destinata al loro nutrimento. Solo quando attraversiamo la riserva indigena Waimiri la foresta ritorna padrona della scena. Alberi di alto fusto svettano sopra un muro verde impenetrabile e l’aria diventa densa, umida, calda e selvatica. Un nero e inquietante temporale si materializza davanti a noi, abbiamo solo il tempo di infilarci le tute antipioggia prima di essere inghiottiti dalla pioggia torrenziale e dalla foresta circostante. L’acquazzone dura poco meno di un’ora, poi il sole ritorna a splendere trasformando gli ultimi duecento chilometri di saliscendi in un incendio di colori mentre il sole tramonta velocemente. Abbiamo solo il tempo di vedere un serpente corallo schiacciato sull’asfalto, poi il buio. Sono quindici ore che non ci separiamo dai nostri amati “cavalli” e domani, finalmente, sapremo cosa ci riserverà il destino.
Al porto di Manaus le notizie sono funeste. Dopo due settimane di inspiegabile siccità il livello del Rio Madeira si è abbassato di due metri e la barca che avevamo prenotato è bloccata a Nord di Porto Velho, cioè a cinque giorni di navigazione da Manaus. La disperazione si trasforma in gioia quando, per un colpo di fortuna, conosciamo Antonio e la sua bella nave che ci trasporterà fino a Porto Velho. Il Rio delle Amazzoni è impressionante: seimilaottocentosessantotto chilometri di lunghezza, profondità massima di centoventi metri, maggior riserva d’acqua del pianeta e una larghezza tale da sembrare un mare.
Trasportiamo le moto di peso giù per una ripida scalinata in ferro che collega la strada alla banchina del porto, poi attraverso due traballanti passerelle in legno raggiungiamo il pontile da cui si accede alla nave. Caliamo le moto con una semplice fune infilata in un anello di ferro attraverso uno stretto boccaporto dentro la stiva calda e buia dove il pavimento sembra avere una vita propria. Nessun problema! Sono solo uno sciame di luccicanti e velocissime “chucaracie” che vagano nell’oscurità disturbate dalla nostra presenza. In pochi minuti le motociclette sono caricate e legate. La nave, completamente in legno, è composta da tre ponti: il primo da cui si accede alla stiva per il carico e lo scarico, il secondo adibito a dormitorio e il terzo scoperto, con un bar e una rumorosa televisione a tutto volume.
Il tempo sulla barca è scandito dall’amaca. Puoi dormire oppure stare sveglio e dormire più tardi, ma sempre stare avvolto come “un pisello nel baccello”. A bordo si litiga per lo spazio vitale dell’amaca, ma poi, seduti intorno all’unico tavolo per la cena, si diventa subito amici. Il pranzo e la cena consistono in un’unica portata, ma il cibo a base di carne di manzo, pollo, fagioli, patate e riso oltre che squisito è abbondante. Le notti arrivano presto all’equatore e sono interminabili, dopo le diciotto è buio pesto e ci si rintana nell’amaca ondeggiando tutti insieme appassionatamente. Nessuno dorme profondamente e mi capita spesso di gironzolare per la nave in cerca di compagnia. Mi piace stare sul ponte di comando, vicino al timoniere del “Barco” che naviga a “vista” nelle impenetrabili notti senza luna oppure sul ponte superiore illuminato da miliardi di stelle dove la barca sembra volare sopra un’infinita scia di fango. Non mancano gli abbordaggi dei veloci barchini che affiancano la nave per prendere o depositare altra gente, altre merci e di tanto in tanto un potente fanale viene acceso per alcuni secondi regalando immagini surreali della riva e delle acque vorticose color caffelatte.
Di giorno invece, si ha la sensazione di sprofondare nel ventre del fiume mentre sfila lassù, in cima all’argine, la foresta. L’enorme massa d’acqua ha scavato nei secoli un solco profondo una ventina di metri che delimita i livelli di piena e siccità. Non è facile navigare in queste acque fangose e spesso si evita l’insabbiamento solo grazie ad una piccola imbarcazione che precedendoci scandaglia il fiume con un rudimentale peso attaccato ad una corda. Si avanza lentamente verso un orizzonte monotono e apparentemente privo di interesse, poi, però, come per magia, sfilano le immagini di capanne, sparuti villlaggi, imbarcazioni, indigeni ed enormi tronchi di alberi trascinati dalla corrente. Mi colpisce un gigantesco albero con le radici ben piantate a pochi metri dall’argine ormai eroso dall’impeto del fiume. Nonostante abbia un aspetto sano e vitale, non potrà sottrasi alla prossima piena del fiume. Immagino che, se potesse muoversi, scapperebbe con tutte le radici, invece di starsene lì immobile con i suoi rami maestosi che abbracciano la foresta in profondità. Forse conosce il proprio destino e sta spargendo tanti piccoli semi nella selva per assicurarsi un futuro.
Dopo tre giorni di navigazione siamo al capolinea. La barca di Antonio è grande e il livello del Rio Madeira troppo basso. Sbarchiamo tutti a Manicorè! Per nostra fortuna, arriva in serata una barca più piccola. Geraldo il comandante, dopo aver dialogato a lungo con Antonio, ci assicura la sua disponibilità a trasportarci fino a Humaità. Da qui ci basterà seguire per duecento chilometri la famigerata BR 319 per arrivare a Porto Velho. Trascorrono altri due giorni di navigazione fra delfini rosa, coccodrilli, pappagalli e cercatori d’oro che cercano fortuna nelle sempre più basse acque del Rio Madeira poi…all’una di notte, approdiamo ad Humaità. La barca accosta lungo la riva fangosa e… ci vorrebbe un ascensore per portare le moto lassù in paese, invece della scala di legno dalla pendenza impossibile che si è appena materializzata davanti ai nostri occhi. Per fortuna Gerardo, che assomiglia sempre di più a un pesce gatto e conosce molto bene il fiume ci sbarca a un paio di chilometri dal centro abitato su una riva fangosa, ma percorribile dalle nostre motociclette.
Per un vero e proprio colpo di fortuna troviamo una “camioneta” cioè un piccolo camion per il trasporto dei bagagli. Il viaggio continua!
Guajara Mirim dista solo seicento chilometri! La mitica BR 319 è molto accidentata e parzialmente sterrata, ma in questo tratto percorribile. Dopo pochi chilometri il telaietto posteriore della Honda Dominator di Mirco si spezza e non c’è altro da fare che caricarla sulla provvidenziale “camioneta”. Superato Porto Velho incontriamo solo pascoli e quello che rimane della foresta data alle fiamme, cioè tronchi anneriti e sterpaglie. Terribile! Un bravo meccanico saldatore impiega più di due ore per sistemare la moto di Mirco, mentre alcuni di noi approfittano della pausa per sostituire i pneumatici. Una “balsa” cioè un ponte galleggiante spinto da un rimorchiatore permette ai mezzi di attraversare il fiume che divide il Brasile dalla Bolivia. La “balsa” non ha orari, parte solo a pieno carico e, visto che è ferma dalla parte boliviana completamente scarica, per non perdere tempo, approfittiamo di due piccole imbarcazioni di fortuna per caricare bagagli e moto. La traversata è molto avventurosa e faticosa, ma in meno di un’ora siamo a Guajaramirim, l’omonima cittadina boliviana. Un anziano autista ci accompagnerà fino a Riberalta con un minibus, una città a solo cento chilometri di distanza. Appena ci lasciamo alle spalle il centro abitato finisce anche l’asfalto e il gruppo si sgrana lungo la bella pista sterrata.
Ad una sosta per il rifornimento mancano due moto. Dopo un’ora, dal polverone sbuca la vecchia Honda Dominator di Claudio, spinta dal volonteroso Flavio. Non c’è niente da fare: il motore è grippato!
Riberalta è una grande città, ma è con estrema difficoltà che ingaggiamo un pick-up che ci consentirà di trasportare la moto “fusa”. La pista sterrata è molto impegnativa. La fatica è ampiamente ripagata dallo spettacolo di questi luoghi: pascoli, laghi, foreste, cavalli, aironi e centinaia di specie di uccelli fanno da sfondo ad una straordinaria pista rosso fuoco. Attraversiamo la zona delle Yungas fra montagne che sembrano rincorrersi fino a scomparire nella fitta vegetazione. Superato Caranavi iniziano anche ripide e pericolose salite. Coroico dista solo venticinque chilometri in linea d’aria, ma per arrivarci ci vorranno più di tre ore.
Evitiamo di proposito la celeberrima “Ruta de la merte” trasformata in un percorso turistico per mountain bike, perché siamo estremamente in ritardo e puntiamo direttamente su La Paz. Superiamo il passo a quota quattromilaseicento metri, poi, una lunga discesa conduce in uno strano canyon dove, circondata da brulle montagne sovrastate dal cielo azzurro intenso, è adagiata questa strana, ma bella città di nome La Paz. Il clima secco e la mancanza di ossigeno esaltano ancora di più la nostra dipendenza dall’aria prodotta dalla foresta che dista meno di cento chilometri in linea d’aria.
Intanto, nel cuore della foresta, il gigantesco albero sul greto eroso del Rio Madeira soccombe impotente alla furia del fiume, forse consapevole di appartenere al ciclo naturale del pianeta. Invece, gli esseri umani, disboscando selvaggiamente, ne sconvolgono gli equilibri dimenticando che luoghi come l’Amazzonia sono il nostro futuro.