Molti i raduni invernali italiani che si fregiano del “treffen”, ma il Kiddo – IRONICAMENTE – ne rivendica l’invenzione…
Ora tutti lì a fare il treffen, anzi i treffen, che nel frattempo si sono moltiplicati. Ora basta andare a prendere la maionese con lo scuter alla coop perché sennò il pupo, senza non mi mangia la svizzera, e si fa il treffen. Mettono le foto sui social, si gasano; ma cosa volete saperne, ché i primi ad andare in motorino con la neve siamo stati io e i miei amici del Pian di Mugnone: il Raffa, il Cento, il Mela, il Gose, il Greco, il Cerra, il Pise, il Bei, il Piero, il Gigi e ovviamente Aroldo, che non aveva un soprannome perché con un nome così… Io ero il Nanno, o il Bomba, dipende.
Correva l’anno 1985, quello della famosa nevicata, noi avevamo fra i quattordici e i quindici anni e ci trovavamo senza fissare con l’aiuto di aifon o smartfon tutti i pomeriggi alle tre nella sala dell’oratorio della parrocchia, disertando ovviamente in qualsiasi modo ogni tipo di funzione, ma con il conforto da parte del don Giorgio, che almeno non si andava a giro a far danni, come quando gli facemmo saltare la cassetta della posta di legno con un raudo.
Non ricordo chi ebbe l’idea malsana del giro con la neve, ma credo il Cento, che arrivò come al solito a duecento all’ora con il Ghiriddi (un Garelli monomarcia che sostituiva spessissimo l’ammiraglia del suo garage, una vespa col faro rettangolare verde pisello ex 50 portata dopo innumerevoli elaborazioni alla cilindrata di 102 cc più numerose altre modifiche ma che proprio a causa dei pesanti interventi meccanici risultava spessissimo inabile al servizio e smontata in mille pezzi su un lenzuolo nero di morchia), frenando la corsa contro il muro della chiesa lodando le doti di resistenza del suo mezzo. Davvero mi viene il dubbio che li avesse, i freni.
“Si va sulla neve a Montesenario!” Annunciò, senza sospettare la minima ombra di obiezione da parte di nessuno.
Noi alzammo gli occhi dalla partita di calcino che ci vedeva impegnati, visto che era scattato il torneino per una volta che nessuno si era portato a casa, inspiegabilmente, la pallina, ed eravamo riusciti nell’impresa impossibile di formare le squadre, attività che prendeva quasi sempre più tempo che lo svolgimento del torneino stesso. A dire il vero a me non mi prendeva mai nessuno perché ero uno dei più scarsi a causa del poco impegno e poca perizia, e solo qualche anno dopo raggiunsi una modesta capacità nel ruolo di difesa.
I miei amici erano dei semipro, tanto da coniare dei termini tecnici come la “palla inganno”, la “svisse”, il “gancino”, il “semigancino”, il “sessantacinque” (perché la palla, si diceva, aveva il 65% di probabilità di infilarsi in porta), il “sugo”, la “sponda” la “foto”, fino a urlare negli orecchi del compagno “smezzala!!!” ed esibirsi in autentiche coreografie che simulavano lo spegnimento della porta dell’avversario con l’estintore in caso di una bordata da fondocampo del portiere avversario con tanto di fischio da pecoraio assordante o la scenetta dell’ingessatura del braccio di chi non riusciva a fermare una palla sparata a duemila.
All’epoca, avere un motorino, per noi ragazzi dell’immediata periferia fiorentina considerata fino a poco tempo prima aperta campagna, era quasi un obbligo ed erano rarissime le eccezioni. Un po’ il contrario di oggi. I mezzi pubblici erano ancora più scarsi e muoversi liberamente, anche a causa dello scarso traffico, era indispensabile e relativamente sicuro se non eravamo noi i primi a fare qualche stronzata grossa tipo infilarsi sotto la Sita col Fifty col 110 e 19 pari come fece il Piero tornando dal lavoro di apprendista elettricista.
Ci infilammo i bomber che stavano ammonticchiati per le scale della casa del prete (quello del Gigi finiva sempre in fondo, ce lo metteva il Bei per tenere gli altri puliti), alzammo il colletto delle cicliste a collo alto fino agli orecchi e indossammo i caschi, che molti avevano senza visiera perché un altro uso del casco in assenza della palla poteva essere quello di giocarci a muretto. Io avevo un bellissimo MDS da enduro in fibra che tenevo come il ciborio, estorto in sede di contratto al Fani, il concessionario che mi avevo venduto il Fantic Raider 50 e nella cui scuderia di trial mio fratello gareggiava col trial con pietosi risultati.
Partimmo dal piazzale della chiesa sgommando sulla ghiaia che i parrocchiani volenterosi tentavano invano di sistemare dopo i nostro passaggi, passando accanto alle rovine delle giostre per bambini che stavamo finendo di distruggere proprio in quegli anni. Era rimasta forse una delle due altalene con la quale la Lela faceva almeno un paio di volte il giro arrotolando la catena intorno all’asta superiore e lo scheletro di uno scivolo devastato dal tempo e dall’incuria. Il girello con le seggioline pendeva da un lato, privo della ruota di metallo che serve per darsi la spinta. Quella, avevamo provato a vedere quanto riusciva a rotolare senza fermarsi lanciandola dalla collinetta soprastante senza renderci conto che in fondo c’era la Brisighellese-Ravennate o Faentina, una statale che passa lungo il paese. Saltando da un muro, la ruota si infilò in mezzo alla strada sfiorando una Alfasud marroncina, dalla quale potrei giurare che uscirono due camorristi incazzati neri, o almeno è quello che mi ricordo io dell’attimo immediatamente prima di scappare verso la strada bianca che sostituiva la ferrovia abbandonata a gambe levate. Tutto sommato, forse sono meglio gli smartfons.
Dal Pian di Mugnone a Monte Senario sono circa nove chilometri, e noi già dal Valico dell’Olmo cominciammo a trovare la neve. Il freddo è una sensazione che si dimentica, ma considerando che indossavamo un paio di jeans, un lupetto, la camicia a righe e il bomber in questo preciso ordine, dobbiamo averne patito parecchio. Di un particolare mi ricordo ancora e che ha sempre contraddistinto la mia vita motociclistica: i guanti di pelle da carpentiere per i quali ancora oggi i miei compagni di avventure fuoristrada mi prendono per il culo. A me piacciono perché costano poco, puoi infilarli nel fango senza patemi per ripescare la Desert sled che il Franz ha pucciato nella mota come un krumiro nel caffellatte e asciugano velocemente senza fondersi se li metti sulla testa del motore. Ma all’epoca, erano i guanti che aveva il protagonista di Visitors! E io li avevo uguali, come le scarpe del tastierista degli A-ha e le mutande di Nick Kamen. Ignoravo purtroppo la cosa dell’asciugatura sulla testa del motore.
Finalmente arrivammo al convento di Monte Senario, che ospita adesso tutti i primi dell’anno la Motobenedizione ma che fu per noi la meta di quel treffen primigenio senza che avessimo la minima coscienza del fatto che ai giorni nostri si sarebbe tramutata in un’esperienza estrema da immortalare coi selfies su feisbuk. C’era tantissima neve, forse un metro, per i nostri standard veramente tanta, e solo con fatica raggiungemmo lo spaccio del convento dove era d’obbligo il panino col prosciutto sano, interrotti continuamente dalle continue pallate di neve, tirate a cattivo fra di noi prima, e poi coinvolgendo i passanti che andavano a farsi la loro tranquilla passeggiata e venivano bersagliati con le enormi zolle di neve che riuscivamo a tirare quando “sbagliavamo” la mira. Fu un pomeriggio epico. Credo di non aver mai avuto degli amici come ai miei quindi ci anni. D’altronde, chi li ha mai più avuti?
Dopo il paio di panini d’ordinanza, ci accorgemmo che stava virando al bruzzico, e decidemmo di rincasare, forse scarsamente coscienti del fatto che si sarebbe abbassata la temperatura e la strada si sarebbe trasformata in una lastra di ghiaccio, ma la nostra esperienza di motociclisti in erba ci permetteva di essere sgamati in molte occasioni. Forse montare su un motorino senza bisogno di alcun tipo di patente poteva risultare rischioso, e ognuno di noi potrà raccontare la propria esperienza di come un’amica o un amico di quegli anni non c’è più a causa di una manovra assurdamente avventata, ma in qualche modo eravamo vaccinati e, in pratica, alla guida della moto ci eravamo svezzati prestissimo.
Scendevamo la strada in fila indiana, senza fare gli stupidi come al solito, andando piano piano. I miei guanti di pelle erano zuppi per le pallate di neve e sarei arrivato a casa con le mani semicongelate.
A sollevarci il morale fortunatamente fu Aroldo, che inspiegabilmente, alla guida del suo Beta M4, un tubone quattro marce che aveva un curioso cavalletto cromato fatto a cavatappi e che era divertentissimo da impennare, partì dal fondo affiancandoci uno alla volta e facendoci segno con la mano di andare piano perché poteva esserci il ghiaccio.
<Cazzo voi Aroldo?!> gli chiedeva quello che veniva affiancato. E lui:
<vai piano, c’è il ghiaccio!>
“Eh, va bene”, gli facevamo segno stringendoci nelle spalle, poi Aroldo passava a quello successivo, dove si ripeteva la stessa scenetta.
Ci superò tutti dando a ognuno lo stesso avvertimento, e un po’ mi commuove il pensiero gentile del mio amico che adesso è consulente legale di una compagnia assicuratrice, solo che appena ebbe finito di passarci tutti, stava per mettersi in testa alla fila, forse con l’intento di rallentarci ulteriormente per precauzione, quando evidentemente sfiorò i freni sul lastrone di ghiaccio producendosi in una piroetta fantoziana e rovinando pesantemente a terra, mentre il betino scivolava lungo lo stradone.
Qualcuno di noi si mise a ridere di gusto da subito, altri aiutarono il nostro amico ad alzarsi, altri andarono a recuperare il motorino prima che spargesse il prezioso contenuto di miscela al due. Aroldo appena alzatosi si produsse in un buffo balletto a zoppino lamentandosi <oi oi oi oi ssshhh oi oi oi oi sssshhhh> che successivamente, raccontando la scenetta, venne riproposto in una infinità di varianti, più o meno veritiere o fantasiose, dove alla simulazione di Aroldo che ci faceva segno “andate piano c’è il ghiaccio” si alternava il mimare il volo, sempre esagerato, seguito dal balletto.
Appena scesi a una quota più bassa, dove non c’era più pericolo di ghiaccio, ci sguinzagliammo come delle furie sui nostri bolidi, il Ghiriddi del Cento sempre in testa, probabilmente perché immune dall’obbligo di dover frenare, sempre che ne avesse, dei freni.
Tornai a casa per cercare di scongelarmi, soprattutto le mani, e fu allora che un amico dei miei, invitato a cena quella sera, mi diede un consiglio che mi sento di girare in virtù della mia antica esperienza e anche per giustificare questo piccolo racconto: va bene fare il treffen, ma le pallate, si fanno a mani gnude!