Viaggio in Africa, partendo dal Ghana, tra riflessioni personali, problemi, e situazioni socio antropologiche, che fotografano uno dei continenti più belli da vivere sulle due ruote.
Testo e foto di Giampiero Pagliochini
[wp_geo_map]Sono arrivato alla dogana di Accra (capitale del Ghana); quella corda giù a terra segna la fine di otto giorni passati tra scartoffie e un infinità di carta. Una volta fuori non mi sembra vero, in un attimo ho la moto sotto le chiappe, le sofferenze per il caldo e le mille difficoltà burocratiche restano un ricordo.
All’hotel in un attimo ravviso tutto e punto verso il Togo. 160 km dopo faccio frontiere tra un caos di persone che ti vorrebbero spennare fino al midollo, e finalmente raggiungo Lomè, la capitale.
La mattina seguente, la prima cosa che faccio è un salto al mercato dei feticci. Un’esperienza trascendentale: qui c’è di tutto, dalle teste di animali alle pelli, fino agli sciamani che tra il sacro il profano teorizzano tutto, come San Tommaso. Li osservo, ma ci vorrebbe altro per fammi abdicare.
Il secondo giorno, salgo verso Atakpamè; per due notti sarà la base per l’escursione alle popolazioni Tamberma, oramai inghiottite dal turismo di massa. Infatti, se ancora fanno una rappresentazione delle danze tribali indossando strani copricapo, non disdegnano le scarpe da ginnastica e abiti più comodi. A differenza degli uomini, le donne sono più legate a una cultura oramai appartenente al passato, o almeno questo è quello che appare ai miei occhi.
Il rientro in Ghana è solo polvere, tanta, e più salgo verso il Burkina Faso più è solo off, polvere e un sole asfissiante.
La sera dormo a 50 km dal confine, mi manca energia, ceno all’aperto con sardine e formaggio locale, sotto una luna che sembra inviti a salirci sopra per quanto è vicina.
Passata la notte e fatte le frontiere, proseguo per Bobo Dioulasso (Burkina Faso), conosciuto dai locali come Bobo. Tutto intorno è ancora polvere, di un colore rosso intenso. La sera l’avrò ovunque, anche nei pori, ma mi diverto e la moto fa scena, diventando un’attrattiva per i bambini, per la sua mole e novità. Punto verso i Picchi di Sindou, una conformazione di rocce erose che ricordano la Capadocia, in cui la natura si è divertita a giocare, creando una scenografia che gratifica l’occhio.
Poi è ancora pista, ancora savana. Deviando arrivo al villaggio di Niansogoni del popolo Wara, che fa parte della grande famiglia Senoufo, circa 1 500 000 persone suddivise in oltre 30 sottogruppi etnici e presenti in tre diversi paesi, Mali, Costa d’Avorio e Burkina Faso. Questa popolazione fino a metà degli anni ottanta viveva in abitazioni trogloditiche annidate su una scogliera delle montagna, che da qui può essere raggiunta a piedi in circa un’ora.
È ormai notte quando rientro a Bobo, con la spia della benzina che mette apprensione. Solo in città troverò un distributore aperto. Giusto il tempo di una doccia, e poi via al cabaret di Bolomakotè, un paese di origine islamica che, come quelli a seguire, dà però l’idea di essere laico.
Al mattino la moto resta al parcheggio, oggi farò il turista, Bobo Diulasso è la più verde città del Burkina Faso. Numerosi quartieri hanno mantenuto un’atmosfera coloniale. La stazione ferroviaria in stile neo-moresco sembra uscita da un film su Atlantide.
Di tutt’altro genere la vecchia moschea, in puro stile sudanese e i quartieri limitrofi. Nel 1891 l’esploratore francese Crozat, descrivendo il ruolo commerciale di Bobo, diceva: “Le carovane del sud vi portano le noci di cola ed i tessuti, quelle del nord vi arrivano cariche di sale, quelle dell’est vi portano utensili in ferro e perline di vetro, mentre l’oro arriva dal paese dei Lobi”.
Bobo è un crocevia d’arte e di musica. Durante il giorno gli antiquari offrono esemplari di maschere in legno: gufi, caimani, farfalle. Il decoro e il simbolismo religioso gratificano lo sguardo, anche se il mercato è un imperversare, oramai, di prodotti cinesi.
È ormai tempo di partire, destinazione Ouagadougou, capitale del Birkina Faso. La strada si snoda attraverso villaggi dove il mercato è il fulcro della vita sociale, un denominatore comune dei paesi africani. Fuori dai grandi centri abitati l’unico problema è il rifornimento di benzina; non è che non si trovi, ma la maggior parte delle volte è venduta da privati, e il rischio è che la allunghino con l’acqua.
Ouagadougou è un centro urbano rilevante. Situato nel mezzo del paese, ha pochi edifici moderni importanti, ad eccezione della sede della West African Central Bank. La vecchia Moschea centrale resta uno dei più alti e significativi. Altre attrazioni comprendono il Museo nazionale del Burkina Faso, il Palazzo Moro-Naba e diversi mercatini di artigianato, oltre alla Cattedrale di Ouagadougou e alla Maison du Peuple. Nella città si trovano poi alcuni parchi. Il principale è il Bangr-Weoogo, bosco un tempo considerato sacro e sede di riti iniziatici, ma che con l’arrivo dei colonizzatori ha perso tali valenze ed è stato riconosciuto e tutelato come parco urbano fino a che, nel 2001, ha assunto la denominazione di “Parco urbano Brang-Weoogo”, che significa “bosco della conoscenza”. Oggi si estende su circa 263 ettari, e parte di esso – L’Unité Pedagogique – è un giardino botanico di 8 ettari popolato da animali in semilibertà; un museo al suo interno illustra la storia nazionale.
Tribolo molto per uscire dal centro dove ho pernottato. Destra, sinistra, dritto. Non ho GPS, ma con l’aiuto di un locale che mi precede in auto imbocco la via verso nord, verso il Mali. Man mano che procedo, la strada asfaltata diventa un ricordo, la pista è di sabbia rossa, una caratteristica di questo paese, il paesaggio è popolato dalle capanne dei Dogon, popolazione che in gran parte vive a Bandiaghara (Mali), e i cui villaggi sono una tipica meta di turisti.
L’off mi esalta; mi guardo intorno, il paesaggio è spettacolare, e vengo attratto da una montagna ridotta come un gratta cacio, con un’infinità di buchi dove brulicano altrettante persone. All’inizio non capisco, poi vedo uno di loro scrutare qualcosa che ha tra le mani e allora mi è chiaro: sono di fronte a una miniera d’oro. Parcheggio. Mi muovo tra questi giovani “disperati” il cui aspetto dà l’idea che di terreno abbiano poco. Su di loro polvere mista a sudore, indumenti monouso che hanno del vissuto. Ai miei occhi sono una specie di zombie, con una vita dura alle spalle, ma in loro c’è tanta dignità e disponibilità. Addirittura uno di loro, pur di dimostrarmi che per un uomo è possibile passare per un foro 80 x 80 cm, risale per un 35 mt da un tunnel verticale. Ismail ha una lampada in testa e un berretto, qualche attrezzo lasciato là sotto e la voce fievole, perché laggiù di ossigeno ce n’è poco. Gli regalo della cioccolata, il suo sorriso mi lascia senza parole, ma è tempo di ripartire. Salgo sulla Kappona e sgasando saluto: è il mio omaggio.
Giungo a Koro, frontiera del Mali. Sbrigate le formalità doganali mi muovo verso Bandiaghara, ma sbaglio strada. Lungo la via incontro persone con carretti trainati da asini, chiedo loro la direzione, ma sarà quella giusta?
Arrivo ad un villaggio Dagon; tutti mi fanno festa; dalla moschea il Muazin chiama alla preghiera, un tizio mi fa strada per un km poi mi lascia con un “sempre dritto”, sì, ma per dove?
Con il mio carico di valige faccio fatica a viaggiare con la Kappona. Lungo la via trovo un altro villaggio, sono tutti cordiali, mi offrono da bere e da dormire. Rifiuto. Devo arrivare a Bandiagara e ho ancora poco più di un due ore di luce.
Finalmente la Falesia di Bandiaghara, sospiro di sollievo e do gas. Dopo 20 km di pietre, arrivo all’hotel dove mi accolgono a braccia aperte. La mia moto li incuriosisce e quando mi dicono che lo scorso anno un’altra Kappa ha sostato da loro capisco: “Chi? Adriano? quello di Milano?”. Il mio interlocutore conferma, è proprio lui, quello che si è perso i documenti, “Ma li avete trovati? No? Peccato, speravo di riportaglieli”. Ci ho provato, tentar non nuoce.
Al mattino faccio fatica ad alzarmi, la stanchezza si fa sentire, quei giorni persi in dogana ad Accra non mi danno scampo.
La mia destinazione finale è Timboctu, una città che evoca nelle mente di ogni viaggiatore un luogo magico: sorge in un habitat arido e sabbioso, a pochi chilometri a nord del fiume Niger nel Sud-Ovest del deserto sahariano, lontana da altri agglomerati urbani e da formazioni naturali di rilievo.
A Douentza, crocevia per Timboctu, ho la fortuna di incontrare una jeep di turisti francesi a cui affidare le mie valige, viaggiare scarico mi agevola, ci rincontreremo sulle rive del Niger. Non ne sono poi così sicuro, ma sparisco in una nuvola di polvere, ora sì che vado. Intorno a me sabbia a tratti, asini e un piccolo villaggio di Bambara Maudè dove sosto per rinfrescarmi. Da poco ho superato una colonna di militari che vanno a Timbuctu; le voci raccolte a Bandiaghara parlano di Toureg in fermento, da qui lo spiegamento dell’esercito, anche se il loro aspetto mi dà più l’idea di truppe male armate, con mezzi vetusti e una raccolta di ferraglia dove fa sempre “ottima” figura l’AK-47.
Quando giungo sulle rive del Niger ho tutto il tempo di riposarmi. I barconi che traghettano sull’altra sponda arriveranno tra un paio d’ore, mi conferma un ragazzo. Attorno a me si assiepa un gruppo di curiosi, le domande sempre le stesse: da dove vieni? Dove vai? Quello che li galvanizza di più è la cilindrata della mia Kappa, come non dargli ragione, ma anche il tempo che ho impiegato per arrivare fin qui.
Finalmente salgo sul barcone che impiegherà un’ora per giungere dall’altro lato del Niger. Lo scenario che passa davanti ai miei occhi è di chiaro stampo africano, piroghe con vele di fortuna, gente sulla riva dedita alla pesca e donne intente a lavare panni.
Una volta toccata la riva ci vorranno ancora 12 km di buche prima di arrivare a Timbuctu, la mitica città alle porte del Sahara, meta degli amanti della sabbia. Il centro raggiunse il massimo del suo splendore tra il 1300 e il 1500, quando divenne polo culturale del mondo arabo e talmente ricca d’oro da essere considerata una specie di Eldorado del tempo. È celebre il suo Sultano Mansa Musa che organizzò un pellegrinaggio alla Mecca con oltre 8000 portatori e centinaia di dromedari. Considerata, per le sue favolose ricchezze e per la sua inaccessibilità, un luogo più mitico che reale, della sua esistenza in Europa si discusse sino al 1806, quando l’esploratore Mungo Park riuscì a raggiungerla dal fiume Niger, anche se non riuscì a tornare indietro. Il primo che ne diede un resoconto fu René Caillié. La città è ancora viva in epoca moderna e, pur non godendo delle ricchezze materiali di un tempo, conserva una piccola parte delle ricchezze culturali dell’epoca, compresi 700.000 manoscritti arabo-islamici dei secoli XIII-XVI , scritti usando caratteri arabi e altre lingue africane del luogo (cosiddette “lingue ajami”).
Moltissime delle costruzioni della città sono state erette e costruite col fango, che garantisce una notevole solidità, dato che la città si trova in una regione desertica del Mali, l’Azawad, e la possibilità che piova è prossima allo zero.
È un patrimonio a rischio a causa della guerra del Mali settentrionale. Io mi sono trovato a vivere una notte di scontri a fuoco non lontano dalla città, a febbraio del 2012 , ma l’escalation non si è fermata. Nel luglio dello scorso anno è stato distrutto un santuario da una cellula di al-Qāʿida. Le distruzioni sono proseguite il 21 dicembre, interessando altri quattro edifici fra quelli dichiarati patrimonio dell’Umanità. È storia recente l’intervento delle truppe francesi a sostegno di quelle maliane per riportare ordine in questa parte del paese.
I barconi iniziano la spola sul Niger alle sei del mattino. Con una levataccia alle quattro, ripercorro a ritroso l’itinerario, con me la solita jeep di turisti francesi. A Douentza piego per Hombori, all’ultimo controllo militare mi viene raccomandato di non arrivare in città: mesi prima sono stati rapiti due geologi francesi.
Il panorama che ho davanti è bellissimo e a tratti sembra quello della Monument Valley. Scatto decine di foto, poi seguo il consiglio del militare e la sera sono a Mopti, cittadina sulle rive del Niger.
La stanchezza affiora; al modesto hotel dove passo la notte mi concedo un pasto a base di pasta e carne, poi a letto.
Lascio Mopti di buon mattino, pochi chilometri mi separano da Djennè, località oltre il fiume Niger che custodisce una moschea tra le più belle di quelle in stile sudanese presenti nella fascia sud sahariana. Visitarla è un calvario, cartelli monitori vietano l’ingresso a persone non islamiche, ma c’è sempre chi, specialmente tra i giovani, in cambio di una lauta mancia, ti dà la possibilità di entrare. Decido di soprassedere.
La televisione al pari dei telefonini è entrata nel quotidiano vivere di queste popolazioni, la sera è tutto uno stridio di voci. In questi giorni si disputa la coppa d’africa e allora la televisione è un richiamo troppo viscerale. Un tizio esulta, salta in aria, corre verso una specie di bar, torna indietro, ma è solo palo, se fosse stato goal che si sarebbe inventato?
Ora il tragitto è solo un trasferimento verso il Senegal. In due giorni approdo a Tambacounda. Per tutto il tragitto ho serie difficoltà a trovare benzina, ma l’esperienza insegna che se ci sono auto c’è anche carburante, anche se vale sempre la considerazione che devi aspettarti un mix con acqua.
Al lago Rosa, arrivo della mitica Paris Dakar, resto deluso, il vento non dà alle acque la possibilità di stagnare e così la mitica foto con le acque color rosa non riesce. Non mi resta che trovare un alloggio per trascorrere la notte, ma non è un problema, perché tanti sono i resort che sono stati costruiti in questo luogo.
Passo la serata insieme ad altri turisti che viaggiano in jeep. Con loro organizzo la tappa sul bagno asciuga, quella che era l’ultima della Dakar. La bassa marea inizia prima delle 8 del mattino e dura fino alle 12. Sono motivato, ma ho ancora tante perplessità, visto che è una prima per me. Ma dopo una notte in cui mi addormento solo all’alba, sono pronto per la mia Dakar. La paura svanisce di fronte all’oceano atlantico, quando un ragazzo mi grida “KTM Meonì”. Io GP scarso ma con tanta passione dentro, saluto e faccio i primi 200 metri di sabbia a manetta perché e chi la tira fuori la kappona se si insabbia? Poi arriva il duro del bagno asciuga, e si viaggia tra la sabbia e il mare.
Sulle prime vado piano poi prendo confidenza, anche troppa, il contachilometri è oltre i 120, rallento, mi godo la visuale: stormi di gabbiani che si alzano in volo davanti a me, ogni tanto gruppi di pescatori che rientrano a terra con tanto pesce. Mi fermo, fotografo, poi riparto. Nel mio piccolo mi sento un po’ dakariano, la menta mi riporta agli anni in cui la sera seguivo le dirette della corsa con la parabola analogica dal segnale scarso con il sogno di farla. Anni fa non avrei avuto il coraggio, oggi proverei ma l’anagrafe non mi aiuta. Le mie riflessioni scorrono veloci come le ruote sulla spiaggia, e dopo 150 km sono a St. Louis. Qui riprendo le mie borse, ringrazio i francesi, passo da un lavaggio per togliere il sale alla moto, poi mi chiudo in hotel.
La sera posto sul web la foto dei gabbiani in volo e la distesa del bagno asciuga, che sarà anche l’icona del libro appena edito.
La frontiera di Rosso tra Senegal e Mauritania è l’unico accesso da questa parte di Senegal, non è facile arrivarvi da St Louis visto che non ci sono indicazione se non lontano dal centro città. Una volta in Mauritania l’unica difficoltà è quel cavolo di fiche (gli estremi miei e della moto) che ad ogni controllo si deve dare alla polizia. Si sta costruendo la nuova strada: 150 km di off prima dell’asfalto in cui incontro solo pochi veicoli, tanto che a momenti ho il timore di aver sbagliato strada. È ormai sera quando tocco Nouakchott.
Quando sorge il sole, fatta scorta di denaro locale, punto su Chinguetti, una delle città sacre dell’islam, un tempo tappa della Paris-Dakar. Il mio unico problema continua ad essere la benzina; reperirla fuori dai grandi centri urbani è impossibile, tutti i mezzi usano gasolio e così ad Akjoujt sono costretto a cercarla di casa in casa. Finalmente la trovo, e qui lascio i soldi anche per il ritorno, puntualmente la troverò.
Chinguetti è una città santa dell’Islam nel deserto della Mauritania, divisa in due (vecchia e nuova) da un fiume di sabbia. Anticamente era uno ksar e importante centro nelle vie carovaniere, con ben 24 biblioteche, ma con l’avanzata della desertificazione ha perso ogni importanza. Da qualche tempo si sono però avviate iniziative, soprattutto su impulso dell’antropologo italiano Attilio Gaudio, per salvare il ricco patrimonio delle “biblioteche del deserto”, tra cui quelle di Chinguetti, minacciate dall’avanzata delle sabbie.
La stima ed il recupero delle opere di Chinguetti è iniziato nel 1949 dopo una visita e un inventario pubblicato dal mauritano Mokhtar Ould Hamidoun. Qui descrisse le opere in mano ai privati custodite in maniera pessima, lacerate e rose dalle termiti. In mezzo a questa desolante situazione trovò testi antichi e manoscritti rari, tra questi il più antico è di Ebi Hilal el-Askeri, un testo di teologia autografo del 480 dell’Egira. Fra i pezzi importanti ci sono poi due Corani, il primo detto di Buaïn çafra (Colui che ha l’occhio giallo) è un manoscritto orientale miniato da Mohammed Ben Abou’l Qayym el-Qawwal e Tebrizi.
A est di Chinguetti sorge una piccola oasi, Ouadane. Casualmente vengo a sapere che qui c’è l’annuale ritrovo delle popolazione del deserto, sarà presente anche il Presidente, faccio due conti e decido di andare. La pista per l’oasi è la fotocopia di quella da Atar per Chinguetti, lungo il tragitto incontro mezzi che carichi di ogni bene, carovane di cammelli che arrivano da ogni punto cardinale e accampamenti di beduini. L’oasi ha del magico, ma il sole sta per tramontare, e mio malgrado sono costretto a rientrare a Chinguetti.
Al mattino, dopo un cambio d’olio e filtri d’aria, inverto la rotta per Nouakchott, accompagnato da una tempesta di sabbia. La mia moto ha bisogno di un nuovo gruppo di trasmissione, ma prima c’è il parco d’Aquin, una parco lungo la costa Atlantica tra i più interessanti al mondo. La cifra per andarci con l’assistenza al seguito è da capo giro, vorrebbero 500€. Rinuncio.
Con la catena ormai cotta raggiungo Nouadhibou, confine del Western Sahara, dove con mezzi di fortuna (fiamma ossidrica, martello e scalpello) effettuo il cambio. A raccontarlo è da ridere, ma farlo è stato l’ultimo tentativo prima della disperazione.
Mi aspetta adesso un lungo trasferimento. Costeggiando l’Atlantico arrivo a Laayoune dove c’è anche l’ONU. Qui è più evidente la contraddizione della terra di nessuno, due modi di caratterizzare la vita con usi e costumi diversi, da una parte la presenza del Marocco con molti militari e un’occidentalizzazione culturale, dall’altra le popolazioni locali di chiare origini mauritane. A suffragare questa terra contesa c’è la rivendicazione della Mauritania. Le zone minate con tanto di cartelli dove si accusano le autorità del Marocco è la testimonianza che una land, che a vista d’occhio non offre nulla, nasconde nel sottosuolo ricchezze inestimabili.
La temperatura è cambiata, a Tamtam sono costretto ad indossare indumenti invernali. Il vento dell’Atlantico è un massacro, la moto viene sbattuta a destra e a sinistra, e mi attacco al manubrio come un animale che contende una preda ad un altro.
Ad Agadir, imbocco l’autostrada per Marrakech, sono gli ultimi 254 km degli 893 che segnerà il contachilometri una volta in città. Supero un passo dove sosto ad un autogrill, la temperatura è di 2 gradi, come sono lontani i giorni in cui beccavo i 36 gradi.
Sono stanco mi butto sotto una doccia caldissima, non soffro il freddo ma in così pochi giorni l’escursione termica mette a dura prova il fisico.
Mi concedo un giorno da turista, Jana al Fna è il cuore pulsante della città, incantatori di serpenti, saltimbanco, venditori di acqua. Tratto con un tizio per una foto con la scimmia sulla kappona, l’animale sembra addestrato, e senza reticenza si siede sul manubrio.
È sera quando rientro in albergo, domani si va a Tangeri, una lunga autostrada che sfilo via senza problemi. Da qui passo in Spagna, mi imbarco da Barcellona diretto a Civitavecchia: è l’ultimo atto di questo viaggio. Un feedback mi riporta al Ghana, all’inizio del viaggio, guardo la moto, fedele compagna alla sua seconda esperienza africana.
Ho trovato molto interessante questo resoconto di Giampiero pagliochini che non conosco personalmente, ma ho avuto modo di apprezzarne le qualità di straordinario viaggiatore leggendo vario materiale che si trova sul web.
volevo fare solo una precisazione; si legge nel racconto: “La frontiera di Rosso tra Senegal e Mauritania è l’unico accesso da questa parte di Senegal”. tale affermazione non e’ corretta. esiste anche il posto di confine di Djama (barrage de djama/diama). 15-20 km in direzione NE verso Rosso da Saint Louis c’è una svolta a sinistra che porta a questo posto di confine. Passato il confine e la diga, la strada diventa una pista sterrata (impegnativa e con molto fango insidioso dopo le piogge) ed entra nel parco naturale di diawling. La pista segue grosso modo il corso del fiume Senegal per circa 90 km e sbuca qualche km prima del posto di confine di rosso.
Spero questa precisazione possa essere utile per chi si trovera’ a passare da quelle parti!
Ciao Andrea nel 2011 a Sant Louis ci dissero che era l’unica aperta avevo fatto il bagno asciuga avrei fatto anche quellacon chi portava le valige dei francesi in jeep non so che dirti