Il primo di una serie di racconti di Walter Ramperti, che dimostrano come la gente sia ospitale in ogni dove. Eccolo sulla Via della Seta in moto
Le strade sono le linee che collegano il mondo anche negli angoli più remoti. Una ragnatela fitta che conduce ovunque, interrotta solo dai confini tracciati dall’uomo e dalla natura. Linee che, per usare un termine geometrico, sono costituite da una sequenza infinita e continua di punti dove i punti, secondo me, siamo noi, gli esseri viventi. I viaggiatori esperti sanno che lungo queste linee incontreranno sempre gente mai vista prima. Hanno la certezza che dovranno chiedere loro ospitalità perché nei viaggi itineranti, i miei preferiti, capita spesso di “far tardi” lungo strade sconosciute dove gli imprevisti non sono rari. Così mi capitò sulla Via della Seta in moto.
Nel 2004 in sella a una KTM 640 Adventure monocilindrica lasciai l’Italia diretto verso il cuore dell’Asia con destinazione finale Kathmandu. Una volata fino alla Cappadocia in Turchia dove avevo appuntamento con un altro viaggiatore esperto. Bruno “spianava” la strada in sella a una mastodontica BMW 1100 GS stracarica di bagagli come se dovesse trasferirsi in Cina e non solo attraversarla. Un compagno di viaggio straordinario.
17 ore con temperature che sfioravano i 50 gradi
Nelle prime due settimane fu un viaggio impegnativo perché purtroppo avevamo una tabella di marcia da rispettare. La Cina aveva appena aperto ai mezzi privati che organizzava in convogli, quindi avevamo la necessità di aggregarci a un gruppo di motociclisti a Tashkent in Uzbekistan per superare la complicata burocrazia della frontiera del Celeste Impero.
Turchia e Iran superati “in scioltezza” con tappe piuttosto lunghe, una su tutte, da Tehran a Mashad in diciassette ore con temperature che sfioravano i cinquanta gradi nel grande deserto salato Dasht e Kavir. Attraversammo un’altro bellissimo e terribile deserto, il Karakum in Turkmenistan sempre avvolti da un caldo infernale, poi visitammo le meravigliose città oasi Khiva, Bukara e Samarcanda in Uzbekistan e puntuali come un cronografo svizzero raggiungemmo Tashkent.
Ci disse: ““le Jurte sono in cima al passo. Non superatele perché dopo non c’è più nulla fino a Sary Tash”
Entrammo in Kirghizistan con diverse ore di ritardo perché le pratiche doganali per dieci moto furono lunghe ed estenuanti. Affrontammo il passo che avrebbe dovuto portarci a destinazione, che consisteva in un gruppo di Jurte vale a dire le famose tende dei nomadi, ormai al tramonto e il buio della notte insieme al gran polverone della strada sterrata ci inghiottì. Le indicazioni della guida kirghisa che seguiva il gruppo su una comoda ma lenta jeep erano precise: “le Jurte sono in cima al passo. Non superatele perché dopo non c’è più nulla fino a Sary Tash”.
Superammo il passo ormai a notte fonda e delle Jurte nemmeno l’ombra. In seguito scoprimmo che i nostri giacigli stavano nel posto indicato dalla guida, ma semplicemente non riuscimmo a vederle perché ognuno si sa segue sempre il proprio destino. Ricordo molto bene l’atmosfera di quella notte di fine luglio, il buio illuminato dalla luna, il luccicare di un miliardo di stelle e il freddo pungente.
Il passo superava i 3500 metri di altitudine. Puntammo verso Sary Tash e ci arrivammo verso le 22, in giro non c’era anima viva. Nella mia vita ho visitato solo due volte Firenze ed è una città che amo moltissimo, ma per Sary Tash, ancora non lo sapevo, quella fu la prima di quattro volte. Sary Tash è solo un villaggio oltre i tremila metri adagiato su un altopiano circondato da altissime vette. Tutto ruota intorno a un incrocio di tre strade. La prima quella che stavamo seguendo noi che arriva dalle pianure di Osh, la seconda che conduce in Cina e la terza che punta verso il Pamir. E lì nel mezzo l’unico benzinaio della zona.
“…io presi posto tra le bimbe che si strinsero un po’, la più grande mi sorrise e mi porse la neonata che aveva in braccio”
Ci fermammo davanti a quello che doveva essere una specie di rivendita visto che campeggiava una scritta “coffee” solo perché era l’unica casa “illuminata” da una flebile lampadina. Bussammo alla porta, affamati e mezzo congelati, una giovane donna ci aprì. Entrammo nella casa, un unico locale, come un’orda di mongoli dopo una cavalcata nella steppa, impolverati dalla testa ai piedi, con quella faccia da cattivi che viene solo ai motociclisti dopo dodici ore di fatica.
Un gruppo familiare con tre figlie a carico con età variabile da sei anni a scendere, con l’ultima arrivata che forse aveva due anni di vita, un’altro figlio maschio di sette/otto anni e una donna più anziana che poteva essere una nonna o una zia. Avevano appena finito di cenare, ma ci invitarono lo stesso a prendere posto alla loro tavola.
I posti non erano sufficienti per tutti, alcuni si sedettero sul pavimento, io presi posto tra le bimbe che si strinsero un po’, la più grande mi sorrise e mi porse la neonata che aveva in braccio. Che bella sensazione tenere in braccio un bambino, non immaginavo nemmeno lontanamente che avrei dovuto aspettare ancora tredici lunghi anni per provare la stessa sensazione con mio figlio Giovanni.
“…vere e proprie bombe al napalm…”
I bambini oltre che un bene prezioso sono il futuro di questo mondo e la mia piccolina, nonostante di tanto in tanto sganciasse delle vere e proprie bombe al napalm, non faceva che sorridermi stringendo ancora di più i suoi occhietti asiatici. Sulla tavola erano rimaste solo noccioline e il capofamiglia, che aveva compreso la nostra fame atavica, incominciò a telefonare agli amici. Si fece vivo più tardi un signore di mezza età che entrò in casa avvolto in una pelliccia di yak che ci invitò a casa sua e ci cucinò un numero imprecisato di uova: fritte, sode, con verdura e cipolla accompagnate da squisite “ruote” di pane casereccio, birre ghiacciate e una bevanda alcolica letale. Poi più tardi ci accompagnò in alcune case disabitate nei dintorni dove passammo la notte.
Da Sary Tash a Nura sono solo sessanta chilometri, ma nel 2004 la strada sterrata era un vero e proprio percorso di guerra perché il tratto era molto battuto dai mezzi pesanti che trasportavano rottami ferrosi in Cina. Ad ogni buca i camion stracarichi perdevano scarti di ferro. Il risultato fu che bucammo tutti almeno una volta mentre alcuni sfortunati due volte. Arrivammo alla frontiera troppo tardi per superala, il venerdì la dogana cinese chiude nelle prime ore del pomeriggio e ci “ritirammo” per il week end a Nura. La gente del piccolo villaggio ci adottò. Finimmo per andare a dormire in alcune case. A me e altri quattro compagni d’avventura capitò la casa delle cinque travi che consisteva in un solo locale di venti metri quadrati con una veranda trasformata in cucina con tanto di fornello da campeggio.
“Ogni tanto “spariva” qualche pollo dall’aia e finiva in pentola.”
La proprietaria, una donna simpaticissima, ci abitava con la figlia Nurgia di dodici anni e il figlio Askar di cinque anni. Vivevano dieci mesi all’anno a Osh, un’antica città adagiata nella valle di Fergana, mentre nei due mesi estivi si trasferivano a Nura dove il marito pascolava gli ovini sui ricchi e verdi pascoli nei dintorni. Furono due giorni magnifici sempre a contatto con gli abitanti del villaggio, circa duecento anime, molti i bambini. Riuscirono a sfamarci. Ogni tanto “spariva” qualche pollo dall’aia e finiva in pentola. Non mancavano mai le patate cucinate in tutte le salse, né frutta e verdura. Partimmo salutati da tutto il paese come fosse una festa dopo tanti abbracci, foto e qualche lacrima.
Il ritorno a Sary Tash
Ritornai a Sary Tash nel 2010 diretto in Mongolia. Il piccolo spaccio era ancora al suo posto e la gestione affidata alla stessa famiglia. La mia piccolina era molto cresciuta ed anche le sorelline. Passammo la notte in un ricovero a poca distanza, l’unico disponibile. Il proprietario aveva una voce tanto stridula che fu soprannominato Claudio Villa. L’hotel molto modesto aveva solo tre stanze, una isolata da una pesante porta garantiva un po’ di privacy mentre le altre due comunicanti erano più un accampamento di materassini gonfiabili e sacchi a pelo stesi a terra. I posti disponibili dipendevano dal numero di persone che chiedevano asilo. Nessuno veniva rifiutato.
Le due notti in cui ci dormimmo quell’anno, trovammo un giapponese che dormiva da solo nella camera con porta, noi cinque che occupammo le due camere comunicanti dove lo spazio era così abbondante da ospitare anche un’orda di motociclisti rumeni, otto energumeni molto rumorosi, sbucati all’improvviso, che avevano l’intenzione di visitare il Pamir. Furono due giorni di pioggia battente e temperature quasi invernali. La vita nel piccolo ricovero sovraffollato fu scandita da pranzi, cene e cori da stadio dei rumeni ubriachi. Ognuno di noi aveva una storia da raccontare, anche il giapponese, che non ho mai capito come riuscisse a leggere un libro in mezzo a tanto caos.
Tentammo anche di andare a salutare i nostri amici di Nura, che sapevamo in grave difficoltà, ma purtroppo la burocrazia Kirghisa ce lo impedì perché non avevamo il visto cinese. Nura era raggiungibile solo per i viaggiatori diretti in Cina.
Sulla Via della Seta in moto, ci ritornai nel 2012 e nel 2015
Tornammo nel 2012 diretti in India, avevamo il visto cinese, e dopo una notte nel “Grand Hotel” di Claudio Villa e i saluti di rito ai nostri amici del piccolo negozio di Sary Tash finalmente raggiungemmo Nura. Sapevamo che il villaggio era stato distrutto da un violentissimo terremoto nel 2008.
Le nuove abitazioni erano tutte prefabbricate mentre delle vecchie case di mattoni a secco con le travi del tetto in legno non c’era più traccia. Avevamo con noi le foto scattate nel 2004 e avevamo l’intenzione di distribuirle. Una donna le guardò una dopo l’altra in silenzio. Il solo commento fu un gesto che mi fece rabbrividire.
Incrociava i due indici delle mani ogni volta che riconosceva la persona sulla foto come scomparsa e lo fece spesso. La meravigliosa signora che ci aveva ospitato nella casa delle cinque travi era sopravvissuta insieme a sua figlia Nurgia mentre il piccolo Askar purtroppo non ce l’aveva fatta. In quella terribile notte morirono quasi ottanta persone, più della metà erano bambini. All’uscita del villaggio c’è un monumento che ricorda tutte le persone scomparse. Le lapidi con i nomi sono disposte a semicerchio e nel mezzo c’è una statua di pietra che raffigura una donna con le braccia protese verso il cielo disperata.
“Gente umile dal cuore grande che non dimenticherò mai”
Nel 2015 diretto in Pamir ritornai a Sary Tash per la quarta volta. Niente era cambiato. La grossa novità fu che per la prima volta nella mia vita stavo viaggiando con una compagna, Silvia. Tentammo di ritornare anche a Nura, avevamo capi d’abbigliamento da distribuire ai bambini, ma anche questa volta la burocrazia ci bloccò perché non avevamo il visto cinese. Non ho notizie di questo angolo di mondo ormai da sette anni, ma tutti i ricordi delle persone che ho incontrato è ben vivo nella mia memoria.
Gente umile dal cuore grande che non dimenticherò mai e chissà che un giorno, vista la mia età, spero non troppo lontano, ci possa ritornare ancora una volta magari con mia moglie e mio figlio per scrivere un nuovo capitolo della mia vita e delle vite di tutte le persone che solo la casualità del destino può farti incontrare.
testo Walter Ramperti
foto Gianni Fornara e Walter Ramperti