di Marco Ronzoni
Continuiamo verso sud letteralmente rapiti (forse da queste parti non è il termine più appropriato…) da tutto ciò che incontra il nostro sguardo. Avvicinandoci alla capitale la strada, pur costeggiando l’oceano, diventa più monotona. Sfiliamo un piccolo centro abitato, Tiouilit, ormai a circa 80 km dalla destinazione. Le dune sono quasi scomparse, lasciando il posto a una distesa arida e piatta. Entriamo in Nouakchott.
[wp_geo_map]Anche qui la prima sensazione è di decadenza, disordine e trascuratezza. Niente di bello o di attraente. Le modeste abitazioni della periferia ci accompagnano fino in centro. Marciapiedi invasi da animali e venditori di ogni genere, sporcizia, sabbia e polvere ovunque. La maggior parte dei mezzi che circolano farebbero inorridire uno sfasciacarrozze europeo. Alcuni sono dei veri e propri miracoli.
Sembrano usciti da un’enorme centrifuga dopo essere stati gettati da un aereo. I motori arrancano e soffiano putridi e maleodoranti sbuffi neri, gli interni sono devastati, la carrozzeria completamente arrugginita ed ammaccata. Niente luci, gomme usurate, finestrini bloccati o sfondati. Ma continuano a muoversi… La vita nelle strade di Nouakchott è un fermento.
Un mucchio di mezzi decrepiti e di persone affollano il “centro”. Il traffico è caotico e puzzolente, senza il minimo rispetto dei pedoni. Oltre ai mille volti caratteristici, agli abbigliamenti multicolori ed alla ruggine delle macchine, spicca solo una moschea con due alti minareti. Purtroppo i rifiuti sono ovunque. In un grande spiazzo sterrato alcuni bambini giocano a calcio dribblando sacchi di spazzatura. Come se non fosse già abbastanza l’essere arrivati in città con una macchina e due moto multicolori, giriamo armati di obiettivi fotografici superpotenti che assomigliano a piccoli cannoni minacciosi.
La gente ci guarda come se fossimo extraterrestri alti 5 metri, verdi e con 8 braccia. La nostra fame di fissare in immagini la vita ed i luoghi, a volte ci fa oltrepassare la sottile linea del rispetto. Il nostro intento è sincero ma il nostro atteggiamento è abbastanza offensivo. Spesso non ci rendiamo conto, per preoccupante superficialità, che così facendo invadiamo la sfera privata delle persone solo per appagare la nostra voglia di ricordare. E di questo un po’ mi vergogno…
I giorni passano veloci. Siamo al 31 dicembre. Il programma odierno prevede l’ingresso in Senegal, dopo 200 km di asfalto (almeno speriamo che lo sia, perché la carta Michelin segnala quel tratto come “route fréquemment ensablée” ed anche se non so il francese qualcosa mi dice che non è buona cosa…). Usciamo da Nouakchott piuttosto facilmente, attraversando la sua periferia ridotta ad una discarica. Il sole sorge alla nostra sinistra lungo la monotona strada verso sud. Il paesaggio continua a mutare.
Le dimensioni della vegetazione aumentano e si intravedono i primi baobab. Il deserto sta lasciando il posto alla savana, anche se qualche duna si rifiuta ancora di sottomettersi. Ad un posto di controllo della polizia (una baracca irriconoscibile) incontriamo due motociclisti spagnoli con due BMW1100GS. Sono di Barcellona e stanno andando a Dakar. Lo spirito di aggregazione e complicità tra motociclisti, che stranamente convive con l’animalesca competizione tra maschi dominanti nello stesso branco, ci fa scambiare impressioni ed intenti mentre attendiamo che un personaggio sbucato dal nulla ci procuri le assicurazioni necessarie per Senegal e Gambia. Dopo 210 km siamo ad un bivio immediatamente prima di Rosso. Dobbiamo decidere se attraversare la frontiera quì o a Djama. Rosso è la porta d’ingresso in Senegal più nota, frequentata e diretta.
Proprio per questo, pare sia un ambiente simile ad un girone infernale dantesco. L’inerme ed indifeso viaggiatore viene letteralmente assalito da una folla urlante che si propone di risolvergli ogni incombenza relativa al passaggio doganale, ovviamente a caro prezzo. Mille mani lo toccano, lo tirano mentre la gente lo circonda impedendogli di fuggire da quella bolgia. Inoltre i funzionari di controllo sembrano i più corrotti e sfacciati del pianeta. Racconti in bilico tra mito e leggenda narrano di certi sventurati che, fagocitati da tale orda, hanno dovuto sudare sette camice e sborsare centinaia di euro prima di riuscire a liberarsene e passare la frontiera, dopo ore ed ore di angoscia. Inoltre, poco dopo, la strada è sbarrata dal fiume Senegal che deve essere attraversato con un lentissimo traghetto prima di affrontare gli ultimi chilometri verso Saint Louis. Un incubo.
Djama invece sembra essere un piccolo paradiso: frontiera facile, poco frequentata, controlli veloci, funzionari gentili, niente traghetto ma un bel ponte scorrevole che ti proietta direttamente dentro Saint Louis. Qualcuno parla di petali di rose sparsi da vergini seminude con la pelle d’ebano davanti alle ruote dei veicoli al loro passaggio… Il pegno da pagare per raggiungere Djama sono “solo” un centinaio di chilometri di pista piena di sabbia, polvere, buche e, a seconda delle stagioni, fango tipo sabbie mobili. Ma è un dettaglio trascurabile, no? L’accesso alla pista è nascosto tra due baracche subito prima del confine ed è praticamente invisibile, quasi a costringerti ad infilarti tuo malgrado direttamente nelle fauci della belva di Rosso. Già dall’Italia propendevamo più per Djama che per Rosso, sia perché la voglia di avventura spesso sposta gli equilibri della mente verso la sua parte meno razionale, sia perché ci era stato consigliato praticamente da tutti coloro che già lo avevano fatto. Non sapremo mai, almeno finché non ci torneremo, se Djama sia la scelta più adeguata. Di certo che fosse la più difficile c’è parso subito. La pista inizia subito a dare filo da torcere.
Premetto che, di tutti noi, il più esperto in assoluto di fuoristrada è Davide, col suo lungo passato ed attivo presente di endurista. Io mi sono cimentato poco su strade non asfaltate mentre per Alberto e Paolo credo fosse la prima volta. Spesso Davide e Monica precedevano tutti di chilometri e si fermavano ad aspettarci, io proseguivo col mio passo sudando e bestemmiando come un ossesso e la Toyota arrancava come meglio poteva, sobbalzando e contorcendosi per cercare le traiettorie migliori su un fondo costantemente di terra, sabbia e buche, terribili avvallamenti e solchi profondi decine di centimetri. Sovente abbiamo percorso piste secondarie segnate dal passaggio di altri veicoli e rese carrabili solo dall’attuale stagione secca. Il terreno passava da tratti discretamente duri ad altri pericolosamente sabbiosi. E sempre polvere, tantissima polvere. A circa 2/3 di percorso il portapacchi della Toyota si è accasciato sul tetto. Un piedino si è spezzato ed un altro si è piegato a causa dei continui scossoni e per il peso delle taniche. Poco dopo la pista inizia a lambire una zona paludosa, spettacolare e ricca di avifauna (pellicani e fenicotteri). E’ Il Santuario Nazionale degli Uccelli di Djoudj, inserito tra i Patrimoni dell’umanità. Brevi soste per ammirarne lo scenario ci sollevano dalla fatica, ma la strada non è finita. Arriviamo ad una sorta di cancello dove ci estorcono 60 euro come tassa di uscita dal parco. E’ una cifra a dir poco folle. Con quei soldi ci compravamo tutto il parco, compreso gli uccelli e quella specie di guardiano vampiro. La tortura dura ormai da quasi 4 ore ma il Dio della Polvere non è ancora sazio.
Prima di giungere finalmente in Senegal ci vuole ancora straziare con 11 km di “tole-ondulee”, il massacrante fondo che letteralmente smonta i veicoli e toglie le otturazioni dai denti. Per fortuna la dogana è tranquillissima e superiamo i controlli senza problemi. Ci vengono consegnati i “Passavant de Circulation”, documenti di importazione temporanea dei veicoli stranieri. Non ci sembra vero di sentire nuovamente scorrere asfalto sotto le ruote, anche se dopo pochi chilometri, ad un posto di blocco, ci rapinano altri 30 euro per evitare di sequestrarci il televisore usato che trasportiamo sulla Toyota e che andava dichiarato in frontiera. Ancora una volta le circostanze ci portano a subire la sfacciataggine di certe richieste che ormai sono diventate una regola fissa in diversi paesi. Spesso i viaggiatori hanno i minuti contati e preferiscono pagare piuttosto che perdere tempo. E loro lo sanno. Approfittiamo della sosta per riparare il portapacchi con l’aiuto di una vicina officina, una specie di catapecchia con strumenti ed attrezzi paleolitici che farebbe venire un colpo ad un responsabile della 626. Comunque, anche se con sistemi poco ortodossi ed in modo piuttosto sommario, il danno viene riparato e possiamo proseguire con un po’ di tranquillità. Prima di ripartire siamo costretti a svuotare tutte le taniche di carburante nei serbatoi perché l’amico dei 30 euro era diventato ancora curioso… Arriviamo a Saint Louis, quinta città del Senegal, nel tardo pomeriggio. Siamo cotti. Attraversiamo il fiume Senegal su un bel ponte ad arcate con fondo di legno e sbuchiamo proprio di fronte all’Hotel de la Poste. Ci troviamo al limitare della zona storica della città che, grazie alla sua caratteristica architettura coloniale, nel 2000 è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dal World Heritage Commitee dell’UNESCO. L’Hotel, ex stazione di smistamento dei primi pionieri della Posta Aerea in Africa Occidentale, ha un’atmosfera magica: la facciata in stile, il patio all’ingresso ed il cortile interno con le balconate su cui si affacciano le accoglienti camere. Siamo sporchi, stanchi, sudati ed impolverati da fare schifo. Ci dissetiamo con birra Gazelle e Sprite, bevendo avidamente. Non ci siamo mai fermati e siamo anche parecchio affamati, ma ci teniamo l’appetito per questa sera. E’ l’ultimo giorno dell’anno e vogliamo festeggiarlo. Con piacere veniamo raggiunti dai due motociclisti spagnoli, anch’essi fermatisi a Saint Louis. Passeranno la serata con noi cenando in un ristorantino semplice ma con ottima cucina e prezzi bassissimi, per poi brindare al 2010 nel patio dell’hotel con spumante rigorosamente italiano portato da casa.
Il rito della sveglia nel cuore della notte e della partenza all’alba non risparmia nemmeno il primo giorno del nuovo anno. Riattraversiamo il ponte sul Senegal e ci avviamo verso sud, direzione Dakar. Nel primo posto di controllo fuori Saint Louis, viene contestata ad Alberto sulla Toyota il mancato uso della cintura di sicurezza. Il diligente poliziotto, si limita a prendersi 28.000 Franchi CFA di multa (più di 40 euro) anziché attenersi scrupolosamente al “regolamento” che prevede il nostro rientro in città, la presentazione ad un ufficio e la possibilità di uscire nuovamente dalla città a mezzogiorno. Ma che regolamento è? Ovviamente, per le solite ragioni, preferiamo pagare piuttosto che perdere 4 ore. I posti di blocco continuano a frammentare la nostra guida mentre il paesaggio cambia senza sosta. Scendiamo paralleli alla costa in direzione Dakar via Louga fino a Thiés (a pochi km dalla capitale) e da lì verso sud-est via Djourbel fino a Kaolack, meta odierna in prossimità del confine con la Gambia. Col passare dei chilometri, i centri abitati si fanno più numerosi e la vegetazione più rigogliosa. L’asfalto sotto di noi però peggiora costantemente, costringendoci a bruschi rallentamenti. Spesso noi in moto ce la caviamo con uno slalom tra profonde buche, mentre la macchina è costretta a subirne inevitabilmente gli scossoni. Entriamo in Kaolack intorno alle 14:00. La città sorge sulla riva nord del fiume Saloum ed è considerata una delle peggiori città africane. Basata totalmente sulla lavorazione del sale e delle arachidi, gode di condizioni igieniche pessime. La disastrosa presenza di sporcizia e rifiuti e l’assenza di acqua potabile la mettono regolarmente a rischio di epidemie di malaria, febbre gialla e colera. Le strade versano in pessime condizioni. Fa molto caldo. Abbiamo scelto Kaolack come trampolino per il salto di domani della Gambia, lo stretto e lungo stato che disegna sulla cartina il “sorriso” del profilo stilizzato del Senegal. Essendo primo pomeriggio, maturiamo l’idea di modificare il programma: cercheremo di passare in giornata la Gambia e dirigerci subito verso Ziguinchor, ultima meta prima dell’ingresso in Guinea. Tentiamo. Fuori dalla pattumiera chiamata Kaolack, la strada corre diritta come un fuso. L’asfalto, sorprendentemente in ottime condizioni, da lì a poco si costella di buche che diventano sempre più numerose e profonde. La velocità media scende a 30 km/h e la Gambia diventa sempre più lontana. Arriviamo comunque alla frontiera in uscita dal Senegal. Solita procedura e solito esborso di soldi. L’asfalto finisce e lascia posto ad un liscio e polveroso sterrato. Sui mezzi e sugli abiti si deposita uno strato di terra rossa che va a sommarsi a quella accumulata sulla pista per Djama. Cento metri dopo, nel villaggio di Farafenny, ai controlli parlano solo inglese, tanto per ricordarti che sei già in un altro Paese. Abbastanza veloce il check dei passaporti, più complicata la dogana. Al “passavant de circulation” senegalese affiancano un identico documento gambiano in tre parti. Carta, timbri, timbri e carta. E soldi, un continuo stillicidio di soldi. Lo sterrato continua. Per attraversare la Gambia (che fortunatamente in questo punto è larga solo una quarantina di km), bisognerà anche superare il fiume omonimo, proprio a metà strada. Quando arriviamo all’imbarco del traghetto è il tramonto. Realizziamo che oltre a non raggiungere mai Zig con la luce del giorno, forse non riusciremo nemmeno ad uscire dalla Gambia e rientrare in Senegal prima che le frontiere chiudano. Ormai comunque non possiamo far altro che continuare. Il ferry è in arrivo e dopo le operazioni di attracco e scarico di persone e veicoli, tocca a noi salire. C’è posto per i nostri tre mezzi, un disperato furgone più ruggine che bianco ed un grosso autocarro. Le persone imbarcate sono poche, una ventina al massimo. Sta rapidamente diventando buio, al punto che, mentre arranchiamo verso la sponda opposta, la notte precipita su di noi. Il grosso faro del traghetto che dalla sommità della plancia di comando illumina le mangrovie della riva meridionale del fiume, crea un’atmosfera teatrale e avventurosa.
L’approdo all’imbarcadero sud avviene senza troppe difficoltà. La perizia del comandante e la lentezza del ferry fanno un’ottima accoppiata. Scendiamo nel buio più totale ed imbocchiamo la pista davanti a noi. Ma l’asfalto e l’illuminazione pubblica sono stati aboliti per legge? Precedo il gruppo, forte dei tre fari della mia moto anche se una fitta nebbia rossa lascia intravedere davvero poco della strada sterrata che stiamo percorrendo. Dopo qualche km deboli luci ci indicano la meta. Siamo a Soma, ridente località gambiana in mezzo al nulla. Le baracche che ospitano gli uffici della Polizia e della Dogana sono mischiate alle altre lungo la via, quasi irriconoscibili se non per scritte sbiadite fatte a pennello sui muri. Fioche candele illuminano i davanzali delle finestre. I vari funzionari ci accolgono nonostante l’ora, sprecandosi in timbri e convenevoli alla luce delle nostre piccole torce tascabili. Dobbiamo cercare un posto dove passare la notte, visto che la frontiera senegalese è ormai chiusa. Un gentile poliziotto si stringe sulla Toyota con Paolo ed Alberto e ci guida attraverso un gruppo disordinato di abitazioni tra le quali serpeggiano minuscoli viottoli sterrati. Giungiamo nel buio più totale davanti ad una recinzione di muratura. L’ingresso si apre su un cortile interno su cui si affacciano due edifici disposti ad “L”. L’aspetto è istintivamente confortante ed il benvenuto della donna che con i figli gestisce la struttura è caloroso. Ha piccole camere, semplici, essenziali ed accoglienti. Bagni spaziosi e, tutto sommato, puliti. Niente acqua calda né corrente elettrica ma non ci lamentiamo. Accettiamo volentieri. La cordialità e la dolcezza della donna sono coinvolgenti. Ci mette a disposizione la cucina e tutto il pentolame necessario e così, grazie alle nostre provviste, riusciamo ad imbastire una buona cena.
All’alba Soma si sta svegliando e con lei la dogana. Risolte con rapidità le incombenze ufficiali, imbocchiamo di nuovo la pistona sterrata verso sud. Di lì a poco giungiamo alla frontiera senegalese. Si ricomincia a parlare francese. Dobbiamo sprecarci per spiegare ai vari controlli cosa ci facciamo lì a quell’ora del primo mattino, ottenendo facce più stupite dal sapere che abbiamo dormito a Soma piuttosto che arriviamo dall’Italia con i nostri mezzi… In Senegal ritroviamo l’asfalto anche se terribilmente pieno di buche. Nell’aria c’è qualcosa di diverso. Mentre ci chiediamo ancora cosa, incominciamo ad incontrare militari armati lungo la strada, a stretti e regolari intervalli. Alcuni ci intimano l’ALT piuttosto bruscamente manifestando un certo nervosismo e chiedendoci da dove veniamo e dove andiamo. Altri ci lasciano passare salutandoci con un freddo gesto della mano. Ci appare subito chiaro che questa parte di Senegal, la Casamance, è piuttosto “agitata”. La regione, delimitata a nord dalla Gambia e a sud dalla Guinea Bissau, è una zona nella quale, da decenni, problemi sociali, economici e politici hanno portato ad attentati e scontri armati tra l’Esercito senegalese ed i ribelli che inseguono un’indipendenza nazionale. Ultimamente, inoltre, la comparsa sul territorio di bande di predoni che non temono di bloccare veicoli ed uccidere per rapina, ha ulteriormente teso la situazione. Dopo un po’ ci abituiamo alla presenza militare e fortunatamente l’asfalto migliora. Possiamo procedere con una buona media, rallentando solo avvicinandoci ai soldati. Il paesaggio è mutato notevolmente. La vegetazione è rigogliosa, arricchita dalla comparsa di alte palme. I villaggi si succedono più frequentemente. Passiamo il bivio di Bignona e ci avviciniamo a Ziguinchor alla quale si accede attraverso il ponte sul fiume Casamance (che dà il nome alla regione). Prima tappa il consolato della Guinea Bissau, dove recuperiamo i visti di ingresso obbligatori, ed a seguire il buon albergo in cui tutti noi volontari prima o poi abbiamo avuto il piacere di soggiornare. E’ splendidamente affacciato sul fiume, con la suggestiva vista delle colorate barche senegalesi che sonnecchiano sulla riva. La cucina è squisita e sarebbe un peccato lasciare Zig senza aver assaggiato il suo leggendario pollo alla brace.
Il giorno tanto atteso è arrivato. Attraversiamo Ziguinchor nella penombra del primo mattino. Lungo i pochi km che ci separano dal confine una nebbiolina suggestiva avvolge la boscaglia. Superiamo senza intoppi la dogana in uscita dal Senegali e poco dopo… non ci possiamo credere. Siamo arrivati in Guinea Bissau. I controlli di frontiera sono alquanto “amichevoli”, grazie alla stima guadagnata dalla Missione e dopo le foto commemorative presso il cippo doganale che porta i colori della bandiera nazionale, varchiamo ufficialmente l’ultimo confine. Non ci resta altro da fare che togliere gli adesivi che coprono le croci rosse della Toyota e darle finalmente l’aspetto autentico che si merita. Il paesaggio verso Ingorè scorre familiare ed i km passano con serenità ed emozione crescente. Romana, una delle tre suore che gestiscono la Missione, ci è venuta incontro per darci il benvenuto nel villaggio di Sedengal, sede di un ”ambulatorio” che fa parte del progetto di salute della Missione. C’è un sacco di gente che aspetta lungo la strada e che applaude al nostro arrivo. In prima fila le donne incinta, con i loro pancioni colorati dai tessuti degli abiti della festa; poi tanti bambini e ragazzi incuriositi soprattutto dalle due moto che forse è la prima volta che vedono così da vicino. La sosta è breve. Ci aspettano in Missione per la Messa (oggi è domenica) e per darci il benvenuto ufficiale. Ripartiamo così accompagnati dal pick-up della Missione, con Paolo che dà sfoggio di tutta la sua personalità sedendo nel cassone posteriore come il Papa sulla Papamobile, dispensando saluti e fotografie a tutto e tutti. Al cartello di Ingoré, la sirena della Toyota inizia ad urlare ed è un suono imbarazzante perché strazia la quiete del posto. Attraversiamo il villaggio ed entriamo nello spiazzo sterrato antistante la chiesa. Una piccola folla si raduna intorno a noi ed ai nostri mezzi sporchi di tanti chilometri. Tra le decine di facce che ci circondano vediamo Suor Ines, originaria della Guinea Bissau, che attualmente condivide la responsabilità della Missione con Romana ed Esperia, quest’ultima trattenuta in Italia da problemi di salute. Scendiamo dai mezzi tra i sorrisi e gli abbracci dei presenti e ci affacciamo nell’ordinato cortile della Missione. Il grande serbatoio si staglia ancora alto e sicuro, il vecchio pozzo con la sua suggestiva pompa eolica a pale è ancora lì come un monumento. Percorriamo il corridoio esterno dell’edificio principale, tante volte illuminato dalle sole luci delle torce portatili quando, di sera, il generatore si spegneva e tutto cadeva nel profondo nero delle notti africane. Entriamo nel refettorio, una piccola sala mensa dove un lungo tavolo è pronto ad accogliere gli ospiti. Ci coglie di sorpresa un piccolo vaso di fiori ed un foglio con scritto a penna “BENVENUTI – BEMVINDOS”… Ci viene offerto da bere e ci dissetiamo avidamente. Il caldo qui è davvero intenso. Si sfiorano i 40°. Dopo la messa celebrata in criolo, la lingua semi-ufficiale del Paese, macchina e moto vengono benedette tra la gente, ora davvero tanta. Poco a poco la festa si placa e possiamo incominciare a godere della pace della Missione mentre la soddisfazione si fa largo tra le emozioni.
I giorni successivi vengono impegnati tra lavoretti di manutenzione in Missione e le centinaia di bambini accorsi per la ripresa della scuola dopo le feste natalizie. Poi arriva il grande giorno della consegna ufficiale dell’auto medica. La cerimonia avviene presso il “Municipio” del villaggio, alla presenza delle varie Autorità invitate per la grande occasione. La Toyota sembra uscita da un centro benessere da quanto è pulita e linda, liberata dalla sporcizia e dai vari accessori da “raid” che l’hanno caratterizzata fin quì. La folla aumenta, forse più curiosa che interessata. Attraverso un megafono si susseguono roboanti discorsi sul valore del gesto compiuto dai volontari della Missione, sull’importanza dell’auto medica per tutta la comunità di Ingoré, della speranza che serva sempre di meno in conseguenza ad un auspicabile miglioramento delle condizioni di vita della Nazione, ma anche che quando servirà possa essere di aiuto per salvare delle vite umane altrimenti condannate. E poi ringraziamenti, ammirazione, commozione, elogi. Ad ognuno di noi viene inaspettatamente donato un telo cerimoniale tessuto a mano riservato alle grandi occasioni. Adesso il sogno è perfetto… La gente incomincia a sfollare. Le celebrità, dopo le foto di rito alla consegna solenne delle chiavi della macchina, una ad una si allontanano ed il villaggio riprende a sonnecchiare. Per noi motociclisti è l’ultimo giorno in Guinea. Sentiamo l’avvicinarsi dell’inevitabile ritorno e la preparazione serale dei bagagli avviene in silenzio. Tutto trova il giusto spazio nelle borse e nelle sacche delle moto ma tanto di noi resterà qui….
06 GENNAIO 2010 – Ok, è ora di partire. E’ con un groppo alla gola che salutiamo i compagni di viaggio, Suor Romana e Suor Ines. Come da programma, il destino del gruppo si divide. Noi motociclisti risaliremo fino a Dakar ripercorrendo a ritroso parte dell’itinerario fatto all’andata. Rientreremo quindi in Senegal e via Ziguinchor e poi Bignona arriveremo al confine con il Gambia che attraverseremo sugli stessi polverosi sterrati e con lo stesso lento traghetto. Arriveremo poi a Kaolack, dove passeremo la notte. L’indomani ci staccheremo dal percorso dell’andata per salire in direzione nord-ovest verso Dakar. Nella capitale ci attenderà l’imbarco delle moto in un container navale per il rientro, mentre noi rimpatrieremo in aereo via Casablanca nella notte tra l’8 ed il 9 gennaio. Paolo ed Alberto invece resteranno in Guinea fino a domenica 10. Passeranno ancora qualche giorno ad Ingoré per portarsi poi a Bissau nella Casa Madre della Missione dove dovranno completare il grande lavoro di recupero delle fotografie dei bambini adottati.
Il sogno è finito.
Sentiamo il dovere di ringraziare in particolare i nostri familiari e tutti coloro i quali ci hanno appoggiato e senza il cui aiuto non sarebbe stato possibile realizzare questo Progetto:
L’Azienda BTSR di Olgiate Olona (Va) – Finanziatrice del Progetto
Canon Italia – Sponsor tecnico
Andreella foto di Busto Arsizio (Va) – Sostenitore
MOTOAIRBAG – Sponsor tecnico
Concessionaria BMW Motorrad AutoClass di Olgiate Olona (Va) – Sponsor tecnico
Archiline Group di Castellanza (Va) – Sostenitore
NEW LINE Informatica di Arluno (Mi) – Sponsor tecnico
STAF Etichette per l’industria di Rottofreno (Pc) – Sostenitore
pneus7 di Acqui Terme – Sponsor tecnico
COOPERATIVA FERROVIERI di Voghera – Sostenitore
Comune di Busto Arsizio – Patrocinio
Motorraid Adventure Spirit – Sostenitore
MANTEGAZZA Allestimenti Speciali di Cislago (Va) – Trasformazione Toyota
Chi ha voluto contribuire anonimamente con le proprie donazioni
Qualche dato:
18 giorni di viaggio
48 ore di navigazione
4.700 Km percorsi
9 frontiere attraversate
GLI AMICI DELLA GUINEA BISSAU – Sono un gruppo di volontari indipendente ed autogestito nato nel 1985 quando ad Ingoré, piccolo villaggio di capanne in quel misero e sperduto Stato dell’Africa Occidentale considerato dall’ONU “quarto mondo”, era appena stata fondata la Missione Cristiana delle Suore dell’Ordine delle A.S.C. La struttura aveva un grande bisogno di aiuto e di tutta una serie di interventi per permetterne la sopravvivenza e lo sviluppo. Ingorè si trova a circa 70 Km entro il territorio della Guinea Bissau a sud del suo confine col Senegal. Si sviluppa lungo l’arteria stradale che collega il nord alla sua capitale Bissau, passaggio obbligato per recarsi all’interno del Paese e via di transito per gli autocarri che trasportano merci di primo consumo verso il Ghana e la Sierra Leone. Il territorio del suo comprensorio, come del resto quello dell’intera Nazione, è quasi del tutto privo di una rete viaria asfaltata e quindi gran parte dei collegamenti stradali sono in realtà percorsi sterrati accidentati, il cui suolo argilloso presenta buche, dossi ed irregolarità di ogni tipo. Solo il 10% delle strade principali, che coprono un’estensione totale di circa 4400 Km, sono lastricate. In questi rari tratti di strada è comunque consueto imbattersi in rovinosi cedimenti del terreno e, durante il periodo delle piogge, profonde pozze di fango che rendono spesso impossibile o comunque estremamente difficoltoso il transito. In conseguenza di ciò, molti villaggi dell’interno rimangono isolati. Gli abitanti di Ingoré, circa 4500 persone, sopravvivono grazie alle poche e modeste attività che offrono loro un minimo di sostentamento (coltivazione di riso, miglio ed anacardi, pesca, pastorizia, olio di palma). I volontari del Gruppo si recano costantemente presso la Missione e nelle settimane di permanenza, con la collaborazione della manodopera locale, realizzano i progetti che nel corso di tutto l’anno sono stati programmati ed organizzati in Italia. Il clima della zona ne condiziona la presenza sul posto concentrando il periodo ottimale tra novembre e febbraio, in quanto in quei pochi mesi si può approfittare della calda stagione secca e godere di buone condizioni di lavoro. Successivamente inizia il periodo delle piogge che, trasformando tutto in un acquitrino fangoso, limita o addirittura impedisce una regolare attività lavorativa oltre a penalizzare fortemente la situazione igienico-sanitaria con un pericoloso incremento dei rischi di contrarre malattie endemiche. I compiti svolti dai volontari, dettati di volta in volta dalle esigenze locali, sono spesso correlati alle loro capacità professionali ed attitudini. Nel corso degli anni si sono alternate diverse tipologie di intervento: da pozzi e serbatoi per l’acqua potabile, ad edifici scolastici (dall’asilo alle scuole superiori), ad ospedali e centri di soccorso, a chiese. Gradatamente l’opera si è allargata dalla Missione alle sue immediate vicinanze fino ad interessare un raggio piuttosto esteso. Tutti i progetti sono resi possibili grazie all’autofinanziamento, ma soprattutto agli aiuti economici ed alle donazioni di materiale offerti dai sostenitori dell’Associazione.
L’impegno delle Suore va oltre la “semplice” istruzione. Importantissima per lo sviluppo del paese, va di pari passo con i principi civili, la sanità e l’alimentazione. I risultati di questo sforzo in questi decenni qui ad Ingorè sono palpabili. Sempre più bambini hanno aderito ai programmi scolastici ed ormai l’istruzione occupa un arco che va dall’asilo al liceo. Diverse malattie endemiche spesso mortali sono state debellate o poste sotto controllo. I decessi per denutrizione sono diminuiti notevolmente, almeno in zona, limitandone i casi alle aree rurali più isolate. Purtroppo sarà impossibile sanare completamente la vita africana. Troppi esempi ci sono stati portati in secoli di storia che fanno poco sperare in una soluzione positiva. Ma di certo qui qualcosa è stato fatto e la Missione ne deve andare orgogliosa
Il Gruppo non si limita ad opere in loco. In Italia è stata creata una rete di adozioni a distanza che ormai aiuta centinaia di bambini a sopravvivere, a curarsi e a studiare. La crescita esponenziale delle adozioni e delle donazioni generiche ha comportato la gestione di cifre considerevoli di denaro che hanno obbligato l’Associazione, nata veramente come un gruppo di amici, a darsi un’identità ufficiale trasformandosi in ONLUS. Ciò è stata la naturale conseguenza del continuo progresso vissuto grazie all’operosità ed all’impegno dei suoi componenti più attivi e l’attuale status del Gruppo è il riconoscimento di tutto ciò. L’Associazione continua comunque a vivere esclusivamente di volontariato, permettendosi quindi di operare a costo zero. I fondi raccolti attraverso le donazioni vengono interamente devoluti per la realizzazione dei progetti o per le Adozioni a distanza dei bambini. Fino a pochissimi anni fa l’unico sistema per far giungere alla Missione il denaro raccolto era trasformarlo in contanti (prima dollari americani poi euro) e trasportarlo, con non pochi rischi, nascosto in modi rocamboleschi addosso ai volontari; recentemente, una rinnovata ma instabile struttura sociale creatasi a seguito di gravi episodi (colpi di stato, uccisioni ed esecuzioni di personaggi politicamente impegnati), ha permesso la rinascita di un minimo sistema bancario che permette finalmente transazioni dirette. I materiali recuperati in Italia vengono invece inviati a mezzo container navali ad un centro di raccolta del P.I.M.E. nella capitale Bissau e da lì smistati alle varie realtà missionarie del Paese.
Per informazioni, contatti o donazioni:
ASSOCIAZIONE AMICI DELLA GUINEA BISSAU ONLUS
Via Maino, 2 – 21052 BUSTO ARSIZIO – Va
Tel. +39 0331 677468 – 342895
www.amicidellaguineabissau.blogspot.com
CF: 90030520127
CC postale: 64548944
IBAN: IT78 Q032 9601 6010 0006 6245 697 Banca Fideuram
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