Nella vita di ogni motociclista c’è un momento, un primo viaggio, che ci segna profondamente e che ricorderemo per sempre; un battesimo del fuoco, un’iniziazione che ci ha fatto scoprire o decidere che quella, per il resto della nostra vita sarebbe stata la nostra più grande passione.
Per me, e’ iniziato tutto un caldo pomeriggio di luglio del 1986, e a ripensarci bene, quel primo viaggio all’insegna della più totale improvvisazione e dell’incoscienza che solo a quindici anni possono regalare un cosi’ assoluto senso di libertà, non era stato in alcun modo pianificato.
Facevo parte di un nutrito gruppo di ragazzetti che si ritrovavano abitualmente nelle stanze della parrocchia del paese della provincia di Firenze, aggregati dal calcino offerto in pasto alla nostra chiassosa vivacità e dalla piacevole frescura degli ambienti attigui alla casa del sacerdote. Passavamo il tempo lontano dall’assillo degli studi scolastici fra una partita e un giro col motorino che avevamo quasi tutti, indispensabile per raggiungere la scuola, il lavoro per alcuni, o spostarci verso la città o per portare dietro qualche ragazzina, sempre le stesse tre o quattro, che ci scambiavamo spesso.
Arrivò a stravolgere il nostro torneino , che ci ripromettemmo di terminare al più presto possibile, il Raffa, che all’epoca guidava un Piaggio Boxer ereditato dalla madre, fermo come un rivetto al quale il pilota con due occhiali spessi come fondi di bottiglia non regalava certo un’andatura sciolta. E’ sempre stato una persona molto determinata, autonoma, fantasiosa e caparbia, un vero sperimentatore in grado di regalare grande entusiasmo a chi gli sta vicino, accompagnato da un incoerente senso critico dissacrante, alimentato da un substrato culturale, quello fiorentino, cinico e polemico. Anche perché lo conoscevamo così bene, anticlericale e bestemmiatore perdipiù, ci sorprese non poco quando ci comunicò che sarebbe partito per andare a trovare Don Giorgio, il prete che ci aveva allevato a nocchini e calci in culo fin dalla più tenera età, al quale andavamo a rubare le ostie in sacrestia, che ci rincorreva se ci sentiva bestemmiare se si perdeva al calcino e che era stato trasferito in una parrocchia del Valdarno l’anno prima.
Ovviamente eravamo tutti enormemente affezionati al nostro prete, e consideravamo degli infami tutti gli abitanti dell’oscura località di Faella che ce l’avevano rubato. Dov’è Faella, chi li conosce quelli che ci abitano? Se non hanno nulla da nascondere, perché nessuno li ha mai visti? Alimentato da questi interrogativi, il nostro pregiudizio che il Don Pio, come lo chiamavamo noi, fosse stato relegato in punizione da qualche autorità politica occulta in lontano confino non ci lasciava sereni. In realtà, come scoprimmo poi, aveva chiesto il trasferimento perché la parrocchia di Faella, suo paese natale, era molto bella e immersa in una piacevolissima e serena campagna, la chiesa bella e grande e la gente del posto partecipe e animata da grande interesse per la vita parrocchiale. E si, avevano anche il calcino, al quale rubammo le palline al termine della nostra visita. Perciò, anche i più riluttanti a rinunciare, per un pomeriggio, all’appuntamento con la ragazzina, montarono in sella al motorino e ci dirigemmo verso la sconosciuta, misteriosa ed esotica località di Faella, provincia di Arezzo, praticamente al di là dell’universo conosciuto.
Escludendo il Raffa, nessuno conosceva la strada per arrivarci e ancora oggi mi sorprende non poco che non solo arrivammo e tornammo tutti sani e salvi, ma che riuscimmo a farlo senza che quasi i nostri genitori se ne accorgessero. L’andatura, come si può facilmente capire, non fu delle più spedite benché avessimo tutti dei cinquantini pesantemente truccati: il Pise con Vespa 50 portata a 75 cc e carburatore 19 pari (ammetto che non ho mai capito che cosa potesse significare quel “pari”, e non ho mai chiesto neanche ai numerosi amici meccanici che ho incontrato negli anni, preferisco che rimanga per me un mistero, qualcosa di magico e misterioso la vita lo deve pur conservare!), il Cento che ci aveva buttato il 102, Pierino col Fifty che letteralmente volava e che rimase famoso per essere finito una volta sotto la Sita ( autobus di linea extraurbano della provincia di Firenze n.d.r), e anche io avevo le mie soddisfazioni col Fantic Raider 50 con la Proma completa.
Il problema, come insegna Che Guevara, è che l’andatura non è data dal più veloce bensì dal più lento, che in questo caso era anche la guida e che non avremmo esitato un attimo a lasciare indietro da solo in casi differenti. “Basta seguire l’Aretina” ci aveva assicurati il Raffa che evidentemente nei suoi peregrinaggi solitari aveva già sperimentato l’ebrezza del viaggio, e in effetti così fu. Con velocità di punta di 45 km\h e con tutto il tempo che porta la noia, l’autoanalisi che ci accompagna durante i lunghi trasferimenti e che innumerevoli volte ho sperimentato nei viaggi che avrei affrontato negli anni successivi, mi incantava vedere i miei compagni in fila, con l’intento fermo di raggiungere una meta.
Mediare fra l’incontenibile voglia di arrivare e il gusto di stare in sella; la piacevole compagnia di quei bastardi dei miei amici di sempre e l’incognita della scoperta di ciò che ci aspettava; il gusto di raggiungere una località che attendeva solo noi per essere scoperta e la gioia di essere riusciti nella mirabile impresa di averlo fatto con un motorino. Una valanga di emozioni che sicuramente lasciarono un segno profondo, una cicatrice come un marchio fatto col fuoco. Dopo neanche due ore di viaggio arrivammo a Faella, dove un Don Giorgio più incredulo che entusiasta della visita di quel branco di shcalmanati ci accolse per farci visitare gli ambienti parrocchiali. Ovviamente trovammo il tempo per esplorare ogni anfratto del posto senza che nessuno ci avesse dato il permesso, entrando in ogni stanza e salendo addirittura sul tetto. Del resto, lì abitava il nostro prete, quindi era un pò casa nostra! Dopo un intenso pomeriggio di mascalzonate e aver sottratto la merenda ai bambini ospiti dell’oratorio salutammo il Don Pio e tornammo verso il Pian di Mugnone.
Arrivammo un pò alla spicciolata via via che riconoscevamo la strada secondo la velocità di ognuno, lasciando per ultimo il Raffa. Fra i miei amici di allora solo pochi sono rimasti dei motociclisti. Il motorino all’epoca era L’oggetto del desiderio, ma soprattutto una necessità per molti, che col tempo sono stati rovinati da macchina o scooter. Per ognuno di noi quello fu il primo vero viaggio in moto, una vera avventura che rivoluzionò un noioso pomeriggio d’estate e per qualcuno rimase un’esperienza in grado di segnare profondamente, o almeno per me fu così.
Per me, come se avessi cavalcato il drago la prima volta, la voglia di scoprire nuovi percorsi, nuovi luoghi con una gioia che solo la moto riesce a darmi è diventata una vera e propria esigenza, un bisogno quasi fisico. E non importa che sia la Finlandia, una nuova strada bianca a pochi chilometri da casa o il Passo degli Appennini che ho fatto mille volte, la giusta ansia, l’eccitazione dei sensi, il brivido al momento che spingo il bottone di avviamento mi fa tornare irrimediabilmente a quel pomeriggio del 1986.