Quarantadue giorni di viaggio in sella alla moto tra le mille meraviglie del Sud America. Seconda parte.
Testo e foto di Giampiero Pagliochini
[wp_geo_map]La Paz ci accoglie con un sole che punge la pelle, non potrebbe essere differentemente vista l’altitudine. Qualcosa è cambiato nell’urbanistica della città, il cemento imperversa ovunque: uno scempio il parcheggio costruito vicino la cattedrale di San Francisco, fulcro delle vita quotidiana, dove si sviluppa un mercato fiorente fatto di souvenir, ma anche di feticci, e allora lo stupore si amplifica vista la fede religiosa di questo popolo.
Nel nostro giorno da turisti per le vie della città, noto che i prodotti cinesi sono molto competitivi anche in questo paese, con il reddito pro capite tra i più bassi del continente. La Bolivia è un paese appiccato senza uno sbocco al mare, frutto anche di due guerre perse una con il Brasile e l’altra con il Cile, quest’ultima la più umiliante perché il porto di Arica, un tempo boliviano, passò sotto il Cile, isolando il paese per sempre.
Il governo Morales ha ridato fiato alla gente, le ultime scoperte di giacimenti di metano hanno provocato un ondata di orgoglio nazionale, come mi spiega Juan, un ragazzo conosciuto al mercato nero di Challapata, crocevia, dopo Oruro, di chi come noi sceglie di andare a destra lasciando la strada per Ujuny, la città all’estremo sud del salar più famoso del Sud America.
Imboccata la pista, dopo un rifornimento volante, puntiamo ad ovest, la meta è Salina de Mendoza. Evidentemente sbaglio qualcosa: la pista che sto percorrendo non è la stessa di anni prima, senza GPS è quasi da incoscienti viaggiare. Un pastore conferma che la pista è un’altra, Quillacas è più a nord. Mi indica un riferimento, lo memorizzo.
Ancora 20 km e Quillacas appare in lontananza, ora tutto mi è chiaro. Oltre la pista, si sta costruendo una strada parallela, una lunga scia di polvere ci accompagna, l’off esalta il concetto, un compagno di viaggio esagera, e scompare in una nuvola di polvere. Nulla di grave, un connettore del serbatoio della benzina rotto, ma fortunatamente ho il ricambio in borsa. Però, prima la pista sbagliata, poi questa caduta, hanno ritardato la marcia e così facciamo gli ultimi chilometri di notte, io avanti e gli altri a seguire. Come per incanto appaiono le luci del pueblo, Salina de Mendoza è una realtà. Hanno costruito un nuovo albergo e lì ci fermiamo a dormire. Dopo di noi arrivano anche tre risciò e una amalgama di ragazzi di vari paesi che, trovatisi sul web, hanno deciso di compiere questa impresa rocambolesca, perché i mezzi sono di produzione cinese, e si rompono solo a guardarli, come spiega Jeck un ragazzo canadese.
10.000 km quadri di piastrelle di sale, una immensità bianca dove il riflesso del sole ti acceca, faccio da apripista, come sempre. Questa volta devo superarmi. Quando incrocio la strada che collega l’isola di Incahuasi ad Ujuny, mi rendo conto che sono troppo a sud, un compagno con il GPS mi dice di proseguire dritto, ma io vado ad ovest. Gli altri mi seguono, lui non è convinto, gesticola per deviare, ma io so che sono nel giusto, davanti ho un ricordo indelebile.
L’isola di Incahuasi è famosa per i Cactus Coralles, difficile capire come possano resistere a queste altitudini e temperature, una flora che da sempre è sinonimo di caldo, ma così è, vai a capire certe stranezze della natura.
Non è facile definire l’orizzonte quando il colore del cielo si staglia sul bianco del salar. Ora davanti a noi c’è una lunga pista, che percorriamo a gas spalancato. Il contachilometri indica i 160, benzina povera di ottani ed altitudine non vanno a braccetto, ma la possibilità di regolare la mappatura fa il resto, diavolerie dell’elettronica.
San Juan il piccolo pueblo ai margini del salar, non è più un riferimento, l’incremento del turismo unito all’obbligo di sosta da parte delle tante agenzia che portano a spasso turisti ne ha fatto una tappa obbligata e così si sono costruiti numerosi hotel. La mia mente torna al 1995, al primo dei tre passaggi in questa land. Tutto appare ora diverso, tranne l’assenza di energia, alle 21 tutti i generatori si spengono riportando il paesino alle origini.
All’indomani, sveglia alle 5 per essere in marcia alle 6, così da evitare problemi che potrebbero rallentare la marcia. C’è da mettere in conto le soste alle lagune, come gli sterrati da percorrere, che diventano sempre più difficili quando si incrociano le jeep, quindi l’alloggio; arrivare prima dà la possibilità di essere sicuri di avere un letto per la notte, anche se a 12 km dalla Laguna Colorada è sorto un altro hotel.
Al posto di blocco i militare si mettono sull’attenti, controllano il passaporto e annotano su un quaderno il nostro passaggio, almeno questo è come anni fa. Prendiamo la direttrice che collega Olluage, frontiera cilena ai piedi dell’omonimo vulcano, con Ujuny, percorriamo un chilometro, per poi girare a destra. I miei compagni di ventura mi seguono senza dire nulla, a volte ho la sensazione di non infondere sicurezza ma già che sono il guro, nessuno obietta. Oltre il valico tutto assume una dimensione diversa. La prima cosa che incontriamo è la Laguna Canapa, popolata da fenicotteri, e anche se non è la prima volta per me, lo stupore è sempre lo stesso. Segue la Hointa, quindi la Laguna Colorada. Ma tra noi e questa si interpone ancora la riserva Eduardo Avaroa una specie di deserto ad alta quota con terreno friabile, la parte più impegnativa del viaggio. Senza esaltarmi, viaggio a gas aperto, di tanto in tanto sosto per attendere gli altri. Ognuno di noi dà il massimo, ma carichi come siamo e senza mezzi di appoggio è dura.
Agli alberi di Pietra una sosta è d’obbligo. A questo punto, vista l’ora, mi metto d’accordo con gli altri di precederli e di riservare una camera alla Laguna Colorada, e così scompaio tra una nuvola di polvere. Al mio arrivo contratto una camera con 6 letti per 15$, con tanto di doccia inclusa, o forse sarebbe meglio dire acqua da prelevare da un bidone con secchio. Cosa vuoi di più dalla vita, recita una famosa pubblicità.
La serata, dopo una cena vegetariana, diventa piacevole vista la presenza di giovani israeliani con cui condividiamo l’umile pernottamento, ma sono la nostra moka e il nostro caffè a fare da vero collante, rendendo il tutto indimenticabile.
Al risveglio, notiamo che gli altri turisti se ne sono andati da un pezzo. Per noi questa è l’ultima tappa ad alta quota, non prima di aver fatto dogana a 5020 m, quando attraversiamo il deserto Salvatore Dalì, nome affibbiatogli per le stranezze che riserva il luogo, in ricordo dell’estro dell’artista spagnolo. Abbiamo idea che la Laguna Verde sarà l’ultima emozione in terra boliviana.
Fatta frontiera ritroviamo l’asfalto, in 45 km scendiamo di oltre 2000 m, siamo a San Pedro d’Atacama, luogo chic o meglio kitsch. Qui tutto è caro dall’albergo ai ristoranti, sembra di essere in un posto da figli dei fiori ma in chiave moderna. Per noi è una tappa obbligatoria perché abbiamo bisogno di manutenzionare le moto, specialmente quella a carburatore, visto che quel filo di ferro messo a restrizione del getto per affrontare le altitudini ora va tolto, altrimenti addio motore.